Reparto

   - Allora, come la sta quest’oggi, il sior Silvestri?

    Eccola là, Margherita. La mia infermiera. Vent’anni, capelli rossicci, occhi verdissimi. Voce gentile dal marcato accento veneto. Si china su di me per sistemarmi il cuscino sotto la nuca, e il camice le struscia contro la coperta. Avverto il suo profumo: un’essenza a buon mercato, però gradevole. Le sta bene addosso. Le si addice.

    - Cos’è, arrabbiato con me, che non la mi vol dir gnente?

    - No, no. Va tutto bene, Margherita. Hai un buon profumo.     

    - Grazie. E’ “Meridian”, di quella casa francese... Com’è che la si chiama, non ricordo. C’ho una testa, oggi... Me l’ha regalato Martino, per il nostro anniversario.

    - E’ il tuo fidanzato, Martino?

    - Sì, sior. Ci sposiamo quest’altr’anno, appena ch’el gh’ha fenìo la casa.

    - Tanti auguri.

    Sorride, e si gira per sistemarmi la coperta sulle gambe. Ha un bellissimo culo, Margherita. Non si direbbe vedendola dal davanti, minuta e magrolina com’è. Alta, snella, seno piccolo, sedere rotondo...

    Il corpo di Cristina.

    Dio...

    Il ricordo dell’incidente mi arriva addosso come un treno merci. Chiudo gli occhi, riempiendo i polmoni d’aria, stringendo i denti fino a che non scricchiolano. Aspetto che passi. Margherita se ne accorge. Di nuovo il suo profumo, più acuto: è vicinissima ora. Mi posa una mano sulla fronte.

- No serve starghe a pensar. La fa star mal,sior Silvestri. Vuole che le accenda la Tivù?



   - No, grazie. - Riapro gli occhi - A che ora... A che ora arriva il dottore?

    - Alle otto e mezza. Dovrebbe essere già qui. Solitamente el ghe xè puntuale...

    - Carissimo Silvestri!

    Il dottor Laganà, alto e secco come un palo, faccia da faina triste, entra nella stanza a passo di carica, tallonato da due assistenti. Mi rivolge un’occhiata critica, di quelle che ti spingono irresistibilmente a portare le mani ai cosiddetti.

    - Uuuh, che brutta cera abbiamo oggi. Non la vedo bene, sa? Non la vedo bene per niente. Sente ancora quei dolorini alla nuca?

    - Ogni tanto.

    - Sempre forti?

    - Sempre.

    - Mmm... Il trauma cranico non si è riassorbito del tutto... I primi due giorni di solito è così. A rischio. - Mi ritocco sotto le coperte, cercando di non farmene accorgere. Lui continua, imperturbabile - La schiena e il ginocchio però vanno meglio, no?

    - Pare che non finirò su una sedia a rotelle, per questa volta.

    - Fa bene a scherzarci sopra, Silvestri. Si tenga su di morale, mi raccomando. La rivedo domani mattina. Buona giornata.

    - Buona giornata a lei.

    Laganà e i suoi tirapiedi scompaiono così in fretta che mi stupisco di non vedere una piccola nuvola bianca sulla loro scia, come nei fumetti. Margherita sta finendo di rassettare la camera. Mi fissa comprensiva con i suoi bei fanali verdi.

    - Povero dottor... Gh’ha cossì tanta gente da visitar, la mattina... Per questo el va di corsa...

    - Dev’essere il suo passo naturale, ormai.

    - Oh, già... Beh, io gh’ho fenìo. Vado a sistemar la siora Matteucci, nella camera di là. Ma s’el g’ha bisogno chiami, eh? Non me faga stare in pensier.

    - Margherita...

    - Sì?

    - Grazie, sei molto gentile.

    - Dovere, dovere... - Esce anche Margherita, con un fruscio del camice immacolato. Il suo profumo aleggia ancora intorno al letto, mi tiene compagnia, ma non riesce a scacciare i ricordi.

    Chiudo di nuovo gli occhi.

    Rivedo tutto come in un film. Sempre la stessa sequenza.

 

    II

 

    Esterno notte. La BMW 330 coupé del noto regista pubblicitario Giulio Silvestri percorre a velocità sostenuta la tangenziale di Milano in direzione Linate. C’è nebbia, e quasi tutte le altre vetture procedono adagio, incolonnate sulla destra. Ma Silvestri no. Silvestri, testa di cazzo com’è, accelera. Spara tutta la fanaleria, lampeggiando feroce a chi gli ostruisce la corsia di sorpasso, illuminando la carreggiata tipo curva di San Siro. La BMW sfreccia a centottanta, centonovanta all’ora, sfiora il guardrail, buca la nebbia come un proiettile.

    Ora la cinepresa inquadra l’interno della macchina. Sedili in pelle, radica, navigatore satellitare. Musica tecno a palla dal multi-CD. Silvestri al volante, serio come un lupo.

    Accanto a lui, Cristina Costa. Gli spettatori la riconoscono subito: è quella che si spoglia sulla spiaggia, nello spot del più famoso aperitivo d’Italia. Dalla mattina presto uno accende il televisore e ogni venti minuti al massimo, tataaaa! Cristina Costa di schiena, tra le palme.     Ancheggia da paura. Lascia cadere il pareo, una nuvola di seta rossa sulla sabbia, e corre verso il Mar dei Caraibi con addosso solo un minuscolo perizoma. Il suo didietro abbronzato buca lo schermo.

    Stacco sull’aperitivo, bottiglia di forma fallica, slogan di coda recitato da uno speaker insinuante. Un’idea vecchia come il mondo - culo, palme, mare e aperitivo - riproposta in modo più accattivante del solito.

    Risultato: Mariti allupati, eterne disquisizioni al bar su complicate e improbabili maratone sessuali in compagnia della signorina Costa, battute sarcastiche delle casalinghe, adolescenti insonni che passano le notti a cercare le foto di Cristina su Internet, martellando la tastiera del PC con una mano sola. Proteste ufficiali da parte di alcuni comitati cattolici. L’aperitivo più famoso d’Italia diventa ancora più famoso. Cristina Costa si guadagna una candidatura per il prossimo Sanremo.

    E Giulio Silvestri, il regista dello spot, si regala la nuova BMW.

    Primo piano di Cristina, seduta rigida sul sedile. Ci offre il suo profilo sinistro, il migliore. Non parla. Controcampo: Giulio le rivolge un sorriso sarcastico. E’ parecchio incazzato, Giulio.

    Quasi quanto lei.

 

GIULIO - Allora?

CRISTINA - Allora che?

GIULIO - Vuoi continuare a fare la stronza fino all’aeroporto o ne possiamo parlare?

CRISTINA - Perché, che cosa c’è da dire?

GIULIO - Niente c’è, da dire. C’è solo da ripetere. Ti ripeto che non mi sono portato a letto la Cinzia Galli. Posso mettermi in loop, se vuoi: non mi sono scopato la Galli, non mi sono scopato la Galli, non mi sono scopato la Galli...

CRISTINA - Smettila. Tanto non ci credo.

GIULIO - Ma ti pare che uno che si è appena fidanzato con la Meglio Stragnocca d’Italia, la regina del coso, lì, dell’aperitivo... Si gioca tutto per una storiella di sesso con una vecchia ex seppellita da anni?

CRISTINA - (Spalanca gli occhi) Come mi hai chiamato?

GIULIO - (Sorride sincero, stavolta) La Meglio Stragnocca d’Italia... E aggiungerei al titolo quello di Vagina Unica dell’Universo Mondo, Imperiale Culo Supremo d’Ogni Tempo, Trombata Totale dell’Evo Moderno, Femmina Assoluta del cuore sanguinante di questo (gigioneggia) umile mortale...

CRISTINA - Tu... Tu sei troppo scemo...

GIULIO - Lo so, lo so... Sono creativo... Ecco perché riesco sempre a farmi perdonare...

CRISTINA - E chi ha detto che ti ho perdonato? Prima ti devo riempire di corna... Aaah, tremenda vendetta! In aereo mi farò il comandante, il vice, lo steward, perfino le hostess... Ti giuro che non passerai più dalle porte, graffierai i soffitti, tirerai giù i lampadari...

GIULIO - Mmm... Anche le hostess, hai detto?

CRISTINA - Maniaco pervertito...

GIULIO - Senti, perché invece non facciamo la pace? Ci troviamo un posticino tranquillo e ce ne stiamo io e te da soli... E poi mi metti tutte le corna che ti pare, se vuoi. Ci devi proprio andare a quella sfilata?

CRISTINA - Certo che ci devo andare, Oddio... (Guarda l’orologio) L’aereo per Roma parte fra ventotto minuti!

GIULIO - Tranquilla, ci siamo quasi.

CRISTINA - Devo fare il check-in... Le valige! Se perdo quel volo il mio agente mi sodomizza. Accelera!

GIULIO - Guarda che sono già a manetta! E c’è questa nebbia del cazzo che...

CRISTINA - (Urlando) ATTENTO!!!

 

    Un furgone che procede a non più di ottanta all’ora invade la corsia davanti a Giulio, per superare una Smart. Giulio lo vede solo all’ultimo momento, si attacca ai freni. La fiancata della BMW sfrigola contro il guardrail con una cascata di scintille, le gomme artigliano l’asfalto. La decelerazione è violenta.

    Né Giulio né Cristina hanno allacciata la cintura di sicurezza.

 

    La sequenza continua al rallentatore. I rumori diventano grevi, distorti, come quando si fa girare a mano un vecchio disco al vinile.

    La BMW si avvicina sempre di più alla coda del furgone, sbandando leggermente. L’avantreno saltella, l’ABS lavora contro il bloccaggio delle ruote ma non c’è abbastanza spazio per evitare l’urto. E’ la Fisica a prendere in mano la situazione.

    A decidere della vita e della morte.

    Il paraurti anteriore dell’auto si incastra sotto quello posteriore del furgone e inizia lentissimamente ad accartocciarsi. Il cofano metallizzato si impenna, i fari alogeni esplodono, l’airbag erompe dal volante, colpisce duramente il petto di Giulio, mozzandogli il fiato.

    Il secondo airbag, quello di Cristina, invece non funziona.

    Forse un difetto di fabbrica, chissà... Lei viene proiettata in avanti, sempre al rallentatore. Spalanca progressivamente la bocca nel tentativo di gridare, urta il parabrezza con la fronte, lo sfonda. Linee di frattura si allargano sul cristallo come cerchi nell’acqua. Un vortice di schegge luccicanti invade l’abitacolo. Galleggiano nell’aria intorno a Giulio come piccole stelle.

    Schizzi di sangue sul cruscotto in radica. L’occhio sinistro di Cristina esce dalla sua orbita. Gira su sé stesso, piano, assurdamente piano. La pupilla si fissa su Giulio per un lungo momento.

    Poi l’occhio viene spinto fuori, oltre il parabrezza distrutto. Nel buio.

    Il corpo di Cristina rimbalza di lato, contro lo sportello. Gli airbag laterali si gonfiano, la gettano addosso a Giulio, poi di nuovo sul cruscotto. Le costole di lei si polverizzano, le vertebre cervicali si separano. I denti bianchi, perfetti, vengono sbriciolati.

    Meccanica al lavoro. Dinamica, Cinematica... Vettori contro altri vettori, contro altri vettori.

    Milioni di equazioni confuse nella danza ruggente del Caos.

    Il furgone viene spinto verso il centro della carreggiata. La BMW gira su sé stessa e comincia a ribaltarsi. Olio, benzina, frammenti di gomma e di metallo si spandono nell’aria.

    E dentro l’auto, fra le lamiere, carne dilaniata, macinata, urlante.

    L’orrore...

    La sequenza al rallentatore si interrompe. L’universo intero accelera di colpo. BAM! Di nuovo in tempo reale: la BMW rotola, sbatte, rotola, sbatte. Stridore di freni tutto intorno, altri cozzi di lamiera contro lamiera, clacson, grida. L’incidente ha ostruito la carreggiata, provocando numerosi tamponamenti. Ci sono feriti, ustionati, contusi.

    Rotola, sbatte, rotola. E alla fine si ferma. La BMW è una carcassa fumante, posata su un fianco. Una delle ruote posteriori gira piano. Il multi-CD, montato su un supporto elastico, continua a funzionare. La musica raggiunge un volume allucinante ora che la macchina è immobile. Copre i lamenti, il gemito del metallo, il gocciolare del sangue.

    Giulio non ha perso conoscenza. Non sente dolore, probabilmente a causa dello shock. L’airbag prima di sgonfiarsi lo ha trattenuto contro il sedile, salvandogli la vita.

    Solo dopo qualche istante lui trova il coraggio di guardare il corpo di Cristina, che giace scomposto a pochi centimetri dal suo.

    Un pupazzo disarticolato, la caricatura di uno scultore folle.

    E non è neppure morta. Non ancora. Si spegnerà sull’ambulanza in corsa verso l’ospedale, fra pochi minuti. Per il momento gorgoglia e sussulta. Gorgoglia e sussulta, come una rana squartata, agonizzante.

    Quando i soccorritori lo estraggono dall’auto distrutta, Giulio sta ancora urlando.

 

III

 

   Emergo dal buio. Devo essermi assopito senza rendermene conto. Sono fradicio di sudore. Maledetto incubo... La finestra della camera è spalancata. Fuori è già notte. Piove forte e le gocce rimbalzano sul davanzale, alimentando una pozza che si allunga in mezzo al pavimento. Dovrò chiamare Margherita, pregarla di chiudere le imposte.       

    Strano che non lo abbia già fatto, però. Non è da lei.

    C’è un silenzio insolito, al di là della porta. Possibile che sia così tardi? Quando ho chiuso gli occhi non erano neppure le nove del mattino. Ho dormito per tutto il giorno?

    Premo l’interruttore di chiamata che pende accanto allo schienale del letto. Attendo.

    Non arriva nessuno.

    Forse Margherita ha finito il suo turno, forse è andata a casa. Questo spiegherebbe la finestra aperta, non tutte le infermiere sono coscienziose come lei.

    Chiamo di nuovo.

    Stavolta sento dei passi nel corridoio. Passi lenti, pesanti.

    Una donnona si affaccia alla porta. Un buon metro e ottanta, occhi porcini, capelli unti, rotoli di ciccia sotto il camice. Chiazze scure all’altezza delle ascelle. Mi guarda con cattiveria.

    - Che cazzo c’è?

    - La finestra è aperta. Piove. Si sta allagando tutto.

    - E allora?

    - E allora può chiuderla, per favore?

    - Perché non te la chiudi da te, imbecille? Ce l’hai le gambe, no?

    Decido di fare il gentile. Qualcosa mi dice che è meglio non inimicarsela, questa. E per il momento non sono in condizioni di strangolarla.

    - Senta, non posso muovermi. Ho avuto un incidente. La schiena...

    - Seee, seee... Ogni scusa è buona per rompere le palle. Come se non vi conoscessi, voialtri...

    Raggiunge lentamente la finestra. La chiude. Poi si volta verso di me, minacciosa.

    - E ora dormi e zitto. Una regola: non disturbare Cassandra, la notte. Mai. Nemmeno se ti stai pisciando addosso. Nemmeno se ti senti male. Chiaro?

    - Chiarissimo. Ma chi è Cassandra?

    Mi punta contro un indice grosso come una salsiccia. Dev’essere forte, la balena. Forte abbastanza da lussarmi un braccio o una clavicola, con quelle manone. Così, per divertirsi...

    - Mi prendi per il culo, stronzetto? Attento a te!

    Esce sbattendo la porta. Cassandra... Può stare sicura che non mi dimenticherò di lei. Anzi, ne parlerò a Laganà appena arriva, domattina. Voglio proprio vedere se...

    Un urlo squarcia il silenzio. Non viene da lontano, forse solo un paio di camere dalla mia. E’ una donna. Grida come se la stessero scannando. Sento bestemmiare Cassandra, poi altre voci, maschili. Passi di corsa. Un altro urlo, quasi un raglio, subito soffocato.

    E dopo, silenzio.

    Provo ad alzarmi. La schiena però mi fa male, e non sono sicuro che il ginocchio regga. Alle prime fitte di dolore rinuncio. Potrei compromettere qualche giuntura, o peggio ancora una vertebra, e non ho voglia di trascorrerci dei mesi, qua dentro. Mi giro su un fianco, drizzando le orecchie. L’ospedale sembra ridiventato una tomba.

    Cerco di prendere nuovamente sonno, mentre la pioggia continua a mitragliare le vetrate della finestra.

    Alla fine ci riesco.

 

IV

 

    Non so quanto tempo sia passato, forse ore, forse pochi minuti. Qualcuno spalanca la porta, sbattendola forte. Faccio un salto nel letto, svegliandomi di colpo. Una fitta di dolore accecante mi arriva dalla schiena al cervello. Boccheggio, senza fiato. Gli occhi mi si riempiono di lacrime.

    - Allora, Silvestri... Riposato bene? - La voce è stridula, maschile. Nella stanza ci sono tre o quattro individui in camice bianco. Li distinguo poco. Quello che ha parlato, un tipo piccoletto, pelato, mi si avvicina.

    - Sono il dottor Marbas, il suo nuovo medico curante.

    Mi asciugo gli occhi con l’orlo del lenzuolo. Adesso lo vedo bene, Marbas. Una faccia piena di rughe sottili, in parte nascosta da occhiali spessi come fondi di bottiglia. Occhi da rettile ingranditi dalle lenti, sinistri. Ma il peggio è quando sorride. I suoi denti sono neri, di forma irregolare. Sembrano divorati da una carie inarrestabile. Reprimo a fatica una smorfia di disgusto.

    - E... E il dottor Laganà?

    - Oh, lui è impegnato altrove, in questo momento. Ma sono sicuro che noi due andremo d’accordo, vero Silvestri? Lei mi sembra un tipo collaborativo...

    Collaborativo?

    - Che cosa intende dire?

    - Intendo dire che non romperà i coglioni, Silvestri, dato che quello che deciderò sarà soltanto per il suo bene. Lei mi capisce.

    Nelle sue ultime parole c’era un vago tono di minaccia. Qualcosa di più che vago. Faccio il muto, mentre due assistenti del dottor Marbas si portano ai lati del letto. Sono diversi dagli studentelli di Laganà, questi. Sembrano dei gorilla da locale notturno, grandi e grossi, pericolosi. Uno mi tiene ferme le braccia, l’altro tira giù le coperte. Sento freddo. Marbas mi esamina la nuca, la schiena, il ginocchio. Ogni tanto bofonchia.

    - Bene... Molto bene... Benissimo.

    - Sto migliorando?

    - Indubbiamente la schiena si è assestata. E il ginocchio è praticamente a posto, ormai. Si tratterebbe solo di aspettare ancora un po’, giusto per precauzione. Ma c’è questa brutta storia del trauma cranico... Lei lo sa com’è, nei primi due giorni...

    - A rischio. - Ripeto le parole di Laganà, rimpiangendo di non potermi toccare in pubblico.

    - A rischio, esatto. Una lesione nella regione cefalica coinvolge vari tipi di tessuto: cutaneo, osseo, e nervoso. Possono insorgere una quantità di complicazioni. E a volte, nel giro di pochi minuti... Tac! - Schiocca le dita. Il suono che fanno non mi piace per niente - Per questo noi dobbiamo rimanere vigili. Pronti. E se è il caso... Intervenire con decisione.

    Marbas fa un cenno ai due gorilla, che mi lasciano le braccia. Nessuno di loro si premura di ricoprirmi.

    - Non faccia stronzate, Silvestri. Lei è solo un ospite qui, per ora. Passerò a rivederla più tardi.

    - Stronzate... In che senso?

    - Nel senso di stronzate. Lei mi capisce.

    No, che non capisco.

    - Che cos’era quel grido, stanotte? Sembrava una donna, proprio in questo reparto.

    Marbas alza le spalle.

    - La signora Matteucci. Un collasso cardio-circolatorio. Abbiamo dovuto intervenire con una fleboclisi di H2SO4. Per fortuna l’abbiamo presa in tempo. Ci vediamo dopo, Silvestri. E mi raccomando ancora...

    - Niente stronzate. - Faccio uno sforzo per sorridere.

    - Lei mi capisce.

    Marbas gira sui tacchi ed esce dalla camera, seguito dai gorilla. Mi ritrovo da solo, con il cervello in ebollizione. Ho visto la Matteucci solo ieri: una bella donna sulla quarantina. E’ passata davanti alla porta della mia stanza e sembrava stare benissimo. Cerco di richiamare le nozioni di chimica studiate al liceo... H2SO4... Idrogeno, zolfo, ossigeno...

    Acido solforico.

    Una flebo di acido solforico... No, non è possibile. Di sicuro ho capito male. Tiro su le coperte, a prezzo di qualche altra fitta alla schiena. Provo a rilassarmi.

    Non ci riesco mica tanto bene. Mi tornano in mente i denti marci del dottor Marbas, le sue lenti da cieco.

    Niente stronzate, mi raccomando.

    Cassandra irrompe nella camera subito dopo, aprendo la porta con un calcio.

    - Il pranzo!

    Mi sbatte sulle ginocchia un vassoio appiccicoso, con sopra dei piatti di plastica grigia coperti da fogli di giornale. Poi mi guarda fisso, come per sfidarmi a fare commenti. Non ci provo nemmeno.

    Lei, forse un po' delusa, si toglie dai piedi. Tiro via delicatamente i fogli di giornale. C’è sotto una sbobba immonda, puzzolente. A guardarla bene mi sembra perfino che si muova nel piatto, da sola. L’altro piatto contiene invece strani pezzi di carne al sugo, che assomigliano in tutto e per tutto a dita umane.

    Cerco di mantenere la calma. E’ evidente che non sono lucido. Forse la mia mente interpreta male i segnali che riceve dalla vista e dall’odorato. L’ha detto anche il dottore, no? I primi due giorni sono così. A rischio.

    Nel dubbio, poso i due piatti sul comodino. Poi la mia attenzione è attirata da uno dei fogli unti di giornale: è un’edizione del “Corriere” datata 12 aprile 1907. Ci sono i titoli dell’epoca. Poso anche il foglio sul comodino. Respiro forte.

    Che cosa sta succedendo, qui dentro?

    Che cosa cazzo succede?

  Guardo la finestra. La pioggia continua a scrosciare contro le vetrate. Ed è buio. E’ ancora buio, non come quando il cielo è molto nuvoloso, ma proprio come a mezzanotte.

    Dov’è finito il sole?

 

V

 

    A questo punto mi alzo. Devo alzarmi. Mi muovo piano, cercando di limitare il dolore alla schiena, e scopro che passato il primo momento le fitte diminuiscono. Bene. Forse ero solo un po' anchilosato. Il ginocchio mi sostiene a sufficienza. Faccio qualche passo ma mi viene un senso di vertigine, barcollo. Mi tengo alla sbarra del letto, aspetto che la vertigine si attenui. Ancora un passo o due. Sto in piedi.

    Sono pronto.

    Per il momento ho addosso solo un vecchio pigiama. Nella camera però c’è un armadietto, forse hanno messo là i miei vestiti. Vado a controllare. L’interno dell’armadietto emana un tanfo abominevole. Alle grucce sono appesi degli abiti sporchi di sangue. Sangue fresco, che gocciola lentamente sul fondo. Richiudo lo sportello. Mi chino sul lavabo lì accanto, in preda a violenti conati di vomito.       Continuo a ripetermi che sono io, che è solo uno scherzo del mio cervello, il trauma cranico eccetera. Ma in fondo in fondo non ci credo. Non riesco a convincermene.

    Tutto questo è... E’ troppo reale.

    Mi avvicino alla porta. Da fuori, nessun rumore. La socchiudo lentamente, sbirciando attraverso la fessura. Il corridoio è buio, sporco, pieno di cartacce e scritte sui muri. Frasi oscene, disegni, strani simboli che non riesco a interpretare.

    Buon Dio, non sembra lo stesso ospedale. Non è lo stesso ospedale!

   Dov’è che mi trovo, allora?

   D-Dove sono capitato?

 

    Esco dalla camera, cercando di non fare rumore. Richiudo la porta. Cammino zigzagando tra i rifiuti e le cartacce che ingombrano il pavimento. Il soffitto è fradicio, pieno di crepe gocciolanti. Alla mia destra, una serie di porte. La seconda è spalancata. Doveva essere la camera della signora Matteucci. Ora è vuota. Continuo a camminare fino in fondo al corridoio. C’è una parete di vetro smerigliato, con un’altra porta. Cerco di vedere attraverso un pannello rotto: ancora nessuno. La porta è aperta, vado avanti. Un secondo corridoio, buio e sporco come il primo.

    Dal fondo, stavolta, arriva un rumore. Cigolio di rotelle arrugginite. Trovo una rientranza sulla parete, poco più che una nicchia, e mi ci nascondo dentro, appiattendomi nell’ombra. Il rumore si fa più forte. E’ un infermiere con la faccia da mastino, grosso più o meno come gli assistenti di Marbas. Spinge verso di me una barella scassata. Sopra c’è un uomo anziano, legato con delle cinghie di cuoio.      L’uomo si lamenta, ma qualcuno gli ha tappato la bocca con del nastro adesivo da pacchi e non può parlare. L’infermiere sorride. Anzi, sarebbe meglio dire che sogghigna.

    - Sta’ calmo, a’ coso... Sta’ tranquillo. E’ un’operazioncella, robetta... Questione di un attimo. Non sentirai troppo male, vedrai. Il dottore è un drago, in queste faccende. Divarica, taglia... Zick! E poi asporta... Zack! Un fenomeno, ti dico... Non te ne accorgi nemmeno...

    - Mmmmghhh... Mmrrraaaggh!

    - Come dici? Tornare indietro? Eeeh... E a chi non piacerebbe, tornare indietro? Solo che non si può. Le regole sono regole, sai? E allora... Zick! Zack!... Zick! Zack!... Eh! Eh! Eh!

    L’infermiere si allontana, continuando a ridacchiare. Aspetto finché il cigolio delle rotelle non si sente quasi più, poi riprendo a muovermi.

    In fondo al corridoio c’è un ascensore. Lo chiamo. Ci mette un’eternità ad arrivare, e io passo tutto il tempo a guardarmi dietro le spalle. Per fortuna non passa più nessuno. Alla fine le porte scorrevoli si aprono. Mi precipito dentro. Sulla pulsantiera ci sono solo due bottoni, contrassegnati da frecce: una è rivolta verso l’alto, l’altra verso il basso.

    Su o giù.

    Spingo il pulsante che porta in basso. Devo trovare un’uscita. Andarmene di qui.

    E poi, qualcosa mi dice che dai piani alti non si torna indietro. Ricordo le parole dell’infermiere con la barella: Zick! Zack! Rabbrividisco. L’ascensore parte.

    Scende veloce, molto veloce. Quando le porte si riaprono mi trovo davanti uno stanzone molto ampio, affollato. Quasi me la faccio sotto nel vedere tanta gente, poi mi rendo conto che nessuno fa caso a me. Esco dalla cabina dell’ascensore e mi mescolo agli altri, guardandomi intorno. Ci sono molte persone anziane, in vestaglia e in camicia da notte, ma anche uomini e donne più giovani. Si aggirano nella sala con aria confusa. Uno mi ferma, un tipo sui venticinque anni, in mutande e canottiera, che porta i capelli tagliati a spazzola come i militari di leva.

    - Oh, non è che sai a che ora ci tocca, per caso? Siamo un po' stufi di aspettare, qui...

    - No, io... Veramente non lo so. - Rispondo. Lui si gratta la nuca, nervoso.

    - E’ sempre così, in queste strutture pubbliche. Ti buttano da una parte e ciao, si dimenticano di te. Che cazzo...

    - S-Sono sicuro che non ci vorrà molto. - Gli dico, senza avere la più pallida idea di cosa intenda. Poi lo lascio lì e mi dirigo verso il fondo dello stanzone.

    Vedo una serie di cartelli, un po' storti e inchiodati male: “CHIRURGIA”, “MATERNITA’”, “PEDIATRIA”, “GERIATRIA”, eccetera. Sotto a ogni cartello c’è una grande porta. A un tratto una voce cavernosa, amplificata da un altoparlante, rimbomba nella sala.

    - IL NUMERO 114! IL NUMERO 114 E’ DESIDERATO IN CHIRURGIA!

    Il tipo con i capelli a spazzola si fa largo tra la folla. Alza una mano.

    - Io! Sono io!

    Due infermieri che sembrano comparsi dal nulla lo afferrano e lo trascinano via, sollevandolo quasi da terra. Il tizio li guarda, confuso.

    - Ehi, un momento. Cosa...

    Uno degli infermieri gli rifila una brutta gomitata in bocca, facendogli ingoiare un paio di denti. Per prudenza mi mescolo alla gente in attesa. Gli infermieri spariscono con il tizio oltre l’ingresso del reparto Chirurgia. Quando aprono la porta, intravedo il pavimento del reparto.

    Un lago di sangue.

    Sarà meglio stare alla larga da lì.

    Mi guardo nuovamente intorno: non c’è traccia di uscite. Non un cartello, non un’indicazione comprensibile. Come in tutti gli ospedali, del resto. La porta del reparto Pediatria è socchiusa, mi ci infilo dentro senza farmi notare.

    E dopo è troppo tardi per pentirmene.

    Alcuni individui dall’aria brutale, con guanti e grembiuli di gomma, entrano ed escono da una sala sulla sinistra. Sulla porta della sala c’è la scritta “NURSERY”. Di nuovo, nessuno fa caso a me: forse quei gorilla non sono programmati per dedicarsi a un adulto. Pensano solo ai neonati. Da una vetrata accanto alla porta si vede l’interno della nursery. Quando scopro cosa stanno facendo là dentro, mi viene il voltastomaco.

    Dopo, i gorilla gettano i grembiuli di gomma in un forno acceso.

    Scappo via, via, con una mano sulla bocca. Percorro altri corridoi, altre sale. Vedo medici e paramedici al lavoro. Veloci. Efficienti.

    Un cardiologo, nel suo ambulatorio, sta infilando un ferro da calza rovente nel petto di una vecchietta. Mentre lo fa, continua a rassicurarla.

    - Si fidi, signora. Sono i nuovi progressi della Medicina Naturale. Metodi sperimentati. Andrà tutto bene.

    La vecchietta protesta debolmente. Non è molto convinta.

    In Rianimazione, due interni torturano un disgraziato con dei pungoli elettrici per il bestiame. Lavorano con metodo, come se stessero adoperando degli stimolatori cardiaci. Sembra di assistere a una versione degenerata di “E.R. Medici in prima linea”, cazzo!

    - E’ un caso disperato! Avanti, prova di nuovo. Tre, due, uno... ORA!

    E - ZZRRAAACK! - Gli danno corrente.

    -Lo stiamo perdendo! Lo stiamo perdendo! – gridano.

    Alla fine il poveraccio, ridotto a un ammasso di carne violacea, fumante, rimane immobile.

    - Lo abbiamo perso!

    Caloroso applauso da alcune infermiere.

    Un neurologo, in un altro ambulatorio, usa tranquillamente una sparachiodi da cantiere sulla spina dorsale di un paziente, legato a pancia sotto su una lettiga. E intanto dà indicazioni a un paio di praticanti, che assistono all’operazione in religioso silenzio.

    - Se volete procurare un’autentica lesione... Una lesione permanente, dico... Dovete raggiungere il midollo spinale. A questo scopo i chiodi da undici sono i più indicati. Lasciate perdere quelli da otto. Alcuni colleghi li usano, ma io ve li sconsiglio. Scivolano sulla vertebra e si piegano. Vi tocca fare un sacco di lavoro in più, dopo...

    Il reparto successivo sembra un obitorio, o piuttosto una macelleria. Cadaveri dappertutto, posati su ripiani e barelle, oppure anche a terra, uno sopra l’altro. Tra i più vicini noto la signora Matteucci, adagiata su una lettiga, abbastanza composta. Ha il viso bluastro, ma a parte questo il suo corpo sembra intatto. Ce ne sono altri, là intorno, conciati molto peggio. Bruciati, mutilati, scannati... Il tutto, da quello che ho potuto vedere, dev’essere avvenuto dentro l’ospedale. Mi aggiro fra i cadaveri, in preda a un senso di nausea, poi sento dei passi. Una porta si apre dietro di me, ed entrano due infermieri. Un attimo prima che mi vedano decido di fare il morto. Mi butto per terra, vicino a un ammasso di corpi.

    I due si guardano intorno, annoiati. Poi uno di loro batte le mani.

    - Avanti. Su, forza gente. Siete stati dimessi, no? Perciò non potete stare qui. Coraggio, fuori. Camminare!

    Il morto più vicino a me spalanca gli occhi. Per poco non mi viene un infarto. Mi mordo le labbra per non gridare. Non è una finzione. Non può esserlo.

    Vedo muoversi in fondo alla sala un tizio a cui manca metà della testa.

    Lo aiuta a mettersi in piedi un altro che non ce l’ha proprio, la testa.

    Si alzano tutti, uno a uno. Lentamente. Quelli che non hanno le gambe si trascinano sui moncherini, altri barcollano come ubriachi. Qualcuno mugola. Anche la signora Matteucci scende dalla lettiga, stiracchiandosi. Io... Beh, io li imito. Non ho scelta. Mi sollevo, mescolandomi al gruppo, sperando di essere abbastanza pallido da non destare sospetti. Usciamo dalla sala in fila indiana, passando davanti agli infermieri.

    - Muoversi, belli. Muoversi. Mica ci vorrete mettere tutta la giornata...

    - Ricordatevi di firmare il registro, prima di uscire.

    Appena fuori, lontano dallo sguardo degli infermieri, abbandono la fila terrorizzato. La signora Matteucci mi fissa severamente. Cerco di non pensare a ciò che le hanno fatto. Scappo, fuggo senza più fermarmi. Continuo a correre di corridoio in corridoio, di sala in sala. Nessuno sembra accorgersi della mia presenza, tanto che ormai neppure mi nascondo più. Corro, con il ginocchio che brucia, con la schiena che ha ripreso a farmi male, ma non sento niente, niente, se non le grida e il rumore dei ferri e le bestemmie e il gorgogliare del sangue. Non ragiono, non penso più, mi lascio travolgere dalla spirale di orrore che mi circonda. Urlo, piango, impreco.

    E corro ancora. Corro, corro...

    Le mani di Cassandra mi bloccano, forti come tenaglie.

    - Ah, ecco dov’eri finito, grandissimo coglione!

    Mi solleva da terra, mi sbatte contro il muro. Due, tre volte. Picchio la nuca sul cemento. Sento l’osso che si spezza. Crollo a terra.

    Cassandra, tanto per essere sicura, mi molla un gran calcio sulla tempia.

    Perdo i sensi.

 

VI

 

    - Silvestri, Silvestri... Che cosa mi combina? Eppure l’avevo avvertita di non fare cazzate... Si vede che dopotutto non ci eravamo capiti bene.

    La luce sopra di me è abbagliante. Lampade alogene ad alta intensità. Sono nudo come un verme, sdraiato su un ripiano freddo, metallico. Un tavolo operatorio!

    Mi hanno portato in Chirurgia!!!

    Spalanco la bocca. O meglio, ci provo. Ho le labbra coperte da due strati di nastro adesivo. Braccia e gambe sono state legate al tavolo con del fil di ferro. La testa di Marbas appare sopra di me, in controluce. Ora il dottore indossa una cuffia bianca e una mascherina. Sopra il camice porta un grembiule di gomma.

    Non ci sono dubbi su ciò che sta per fare.

    - Eppure lei mi sembrava una persona intelligente, Silvestri. Doveva solo starsene calmo, tranquillo, forse neppure le sarebbe toccato di finire qui. E invece no! Lei mi si agita! Mi si strapazza! E la sua posizione si aggrava! Avrà capito dove siamo, immagino...

    Faccio cenno di no con la testa. Ho gli occhi sbarrati. Voglio che parli. Lo so che è una situazione da film di serie B, me ne rendo conto, ma non lo faccio per il pubblico.    Desidero più di ogni altra cosa, più di ogni altra cosa che lui continui a parlare.

    E che non cominci a usare su di me il succhiello arrugginito che ha in mano.

    - Questo è un reparto, come dire, “parallelo”, per pazienti che sono fra la vita e la morte. Il reparto si trova... Dall’altra parte, capisce? Però in corrispondenza di quello da cui lei proviene. Siamo in qualche modo... Sovrapposti.

    Reparto parallelo? Sovrapposti? Che stronzate va raccontando? Sudo come un cavallo. Lui continua.

    - Lei ha avuto una crisi, Silvestri. Una brutta crisi. Il trauma cranico, ricorda? I giorni a rischio... Beh, è finito in coma. Proprio come le avevo detto. Tac! Emorragia interna. Un bell’arresto cardiaco. E così l’abbiamo rilevata noi, proprio come la signora Matteucci. Ma il suo caso era meno grave di quello della signora. Invece che mandarla con gli altri, l’abbiamo tenuta in osservazione. Non sapevamo ancora se avremmo potuto intervenire o no. Vede, dalla “sua” parte... - Punta un dito verso un punto generico, in alto - I nostri colleghi lavorano per riportarla, ehm, in vita. Mentre noi... Noi lavoriamo per trattenerla quaggiù.

    Mi viene un attacco di nausea. Con il nastro adesivo che mi chiude la bocca, un altro conato e rischio di soffocare. Quaggiù dove?

    - Per farlo, però, la dobbiamo curare. Curare dalla Vita, appunto. Un brutto germe, sa, la Vita... Resistente, insidioso... Se si dovesse propagare qui da noi, potrebbe succedere di tutto. Gente che se ne sta tranquilla da decenni, ma che dico? Da secoli, da millenni, perfino, proverebbe di nuovo quel formicolio, quella scintilla... E avrebbe la tentazione di, ecco... Di ritornare. Pensi alle conseguenze di una infezione di Vita, da “questa” parte. Un’epidemia, se non... Tremo al solo pensiero... Una pandemia! Che casino sarebbe, caro Silvestri... Un vero casino!

    Marbas alza il succhiello. La punta mi sfiora la faccia.

   - Perciò dobbiamo assicurarci che lei lasci il reparto assolutamente, clinicamente, irrevocabilmente... Morto. Il resto del suo soggiorno qui, poi, dipenderà da lei. Ciò che farà una volta uscito dal mio ospedale non mi riguarda. Ora si rilassi.

    Sorride. La mascherina mi risparmia la vista dei suoi denti neri.

    - Ci vorrà solo qualche minuto...

    - Dottor Marbas!

    Una voce femminile, fuori dal mio campo visivo. E’ soffocata, alterata, eppure... Eppure mi sembra di riconoscerla...

    - Che c’è? Non lo vede che sono occupato?

    - Un caso grave, dottore. Il 114 è fuggito, ed è ancora... Non so come dirglielo... Contagioso.

    - Come? Come sarebbe, contagioso? L’ho operato io stesso, poco fa. Doveva essere dimesso stasera. Era completamente guarito.

    - Sono mortificata, dottore, ma sembra che non sia così. Un caso di... Guarigione apparente. In Direzione mi hanno detto di riferirlo a lei perché il paziente era sotto la sua responsabilità, però se crede...

    - No, no. Arrivo. Chiami Cassandra, e dica a tutto il personale di darsi una mossa. Bisogna prendere quell’imbecille prima che provi a lasciare l’ospedale.

    Marbas posa il succhiello su un ripiano accanto al tavolo operatorio. Mi guarda costernato, strappandosi la mascherina dalla faccia.

    - In tanti anni di onorata carriera... In tanti anni non mi era mai successa una cosa del genere... Mi tocca farla aspettare, Silvestri. Ma non si preoccupi. Sarò di ritorno quanto prima.

    Passi concitati. Marbas esce dalla sala operatoria, seguito da un paio di infermieri.        Un istante di silenzio, poi qualcun altro mi viene vicino. Un’infermiera snella, alta, con il volto coperto da cuffia e mascherina. Si china su di me. Vedo anche lei in controluce, una sagoma nera fra le lampade abbaglianti.

    Ha con sé un paio di cesoie da giardino. Affilate.

    - Sta’ buono, adesso. Non ti agitare. Faccio in un attimo.

    Le stesse parole di Marbas. Col cavolo che non mi agito! Poi però la vedo tagliare il fil di ferro che mi blocca le gambe e le braccia, e in pochi secondi sono libero. Mi aiuta ad alzarmi, strappandomi il nastro adesivo dalla bocca.

    - Ahio!

    - Zitto! Vuoi farti sentire? Guarda che sto rischiando grosso per te.

    Quella voce, sotto la mascherina bianca...

    - Tu sei...

    - E chi credevi che fossi, scemo! La fata turchina?

   

VII

 

    Cristina si toglie la maschera e la cuffia, poi si sfila il camice da infermiera. Sotto ne ha un altro uguale. Furba, la mia ragazza...

    Mi aiuta a indossare quello che si è levato. E’ un po' stretto, ma alla fine riesco a entrarci. Per fortuna lei è alta quanto me. La guardo. Cristina abbassa gli occhi.

    - Mi hanno... Mi hanno sistemata un po', qui, quando ho fatto domanda per lavorare nell’ospedale. Ci tengono molto all’immagine del reparto...

    Il suo viso è ancora bello. Le hanno inchiodato i denti alla meglio, ma non si vede tanto. Anche l’occhio è di nuovo al suo posto. La pupilla è solo un po' velata. Ci abbracciamo. La situazione è assurda, lo ammetto, ma dopo quello che ho visto nulla riesce più a sorprendermi. Anzi, scopro in me risorse inaspettate. Il panico è quasi scomparso, e mi stanno tornando rapidamente le forze. Infilo la cuffia in testa, mentre Cristina mi sistema la mascherina chirurgica sulla faccia.

    - Ho nascosto il 114 in una cella frigorifera. Ci metteranno del tempo a trovarlo, e intanto scoppierà una gran confusione. Dovremmo farcela a raggiungere l’uscita, se nessuno ti riconosce.

    - Sai come arrivarci?

    - Sì. Si passa dai garage.

    Corriamo, tenendoci per mano. Un corridoio, una scala, un altro corridoio... Intorno a noi, squadre di infermieri grossi come armadi mettono a soqquadro le camere, frugano nei magazzini, sorvegliano i cortili. La voce di Marbas, stridula e isterica, rimbomba da tutti gli altoparlanti.

    - TROVATE QUELL’UOMO O SIETE TUTTI FOTTUTI! VI FACCIO LICENZIARE! VI RIBUTTO IN MEZZO A UNA STRADA, DEFICIENTI!

    Raggiungiamo i magazzini senza problemi. E da lì arriviamo ai garage, scalcinati come il resto dell’ospedale. Cristina prende un mazzo di chiavi da una rastrelliera sul muro. Anche quelle, mi sembra di riconoscerle...

    - Muoviti, Giulio. A quest’ora avranno scoperto tutto, ormai!

    - Uff... Ar-Arrivo...

    La schiena ha ripreso a farmi male. Cristina mi spinge avanti, praticamente mi trascina. La macchina è là, proprio in fondo alla rimessa più grande. La mia BMW.

    La carrozzeria è ancora sfasciata, contorta, ma le ruote sembrano a posto. Che ci fa qui? Forse anche per le auto esiste un aldilà? O meglio un “quaggiù”, come dice Marbas? La portiera si apre con un cigolio sinistro. Cristina mi butta le chiavi e si siede accanto a me. Ci allacciamo le cinture.

    Strappo via il sacco floscio dell’airbag dal volante. Infilo la chiave nel cruscotto, la giro. Il motorino d’avviamento emette il suo gemito acuto.

    Non succede nulla.

    Cazzo! No!

    Ci riprovo. Lascio miagolare l’avviamento per parecchi secondi. Niente. Il motore non dà segni di vita.

    Ancora! Rischio di scaricare la batteria, ma me ne frego. E’ la mia unica possibilità.

    - ECCOLI!

    L’urlo ci paralizza per un attimo. La porta della rimessa si spalanca. Cassandra corre ansimando verso di noi, seguita da un paio di infermieri. Il suo passo da elefante fa tremare le pareti. Arriva veloce, molto veloce per una della sua stazza. Ha le manone protese, pronte a stritolare. A distruggere.

    - STRONZI! BRUTTI STRONZI DI MERDA! QUESTA ME LA PAGATE!

    Ancora! Il motorino di avviamento ora ansima, si ferma, riprende a stento: la batteria sta tirando gli ultimi. Cassandra raggiunge la macchina, ci sbatte contro come un toro infuriato. Blocco gli sportelli, ma i vetri e il parabrezza non esistono più. Lei deforma il tettuccio con un pugno, BANG! Cristina urla.

    Una mano enorme si infila attraverso il finestrino, mi afferra alla gola.

    Il sei cilindri della BMW si avvia con un rombo. Poteva anche decidersi un po' prima, per la miseria!

    Parto a razzo, lasciando qualche etto di battistrada sul pavimento della rimessa. Cassandra non molla la presa. Perde l’equilibrio, ma rimane attaccata al finestrino. Il suo peso fa sbandare la macchina. Ripensando al “pranzetto” da lei gentilmente offerto, mi infilo in piena accelerazione fra due pilastri sbrecciati.   

    L’auto ci passa al pelo. Cassandra no.

    Urta il pilastro di sinistra a più di sessanta all’ora. Il suo cranio si schiaccia come un’anguria contro il calcestruzzo. L’eruzione di sangue, grasso e materia cerebrale sfiora il paraurti posteriore mentre schizzo verso l’uscita. Cristina alza le spalle, con un sospiro.

    - Quella testona. Hai visto? Ora chissà quanto ci metteranno a sistemarla...

    - Vuoi dire che...

    - Certo. Lo sai dove siamo, no? Mica può morire due volte... Prenderanno i pezzi e li ricuciranno. Lo hanno fatto anche con me...

    Dallo specchietto retrovisore vedo la carcassa di Cassandra sollevarsi lentamente. Non ha più la faccia, e il corpaccione è praticamente esploso. Ma si sta rimettendo in piedi...

    Smetto di guardare, è meglio. Mi concentro sulla guida.

    - Cristina, senti, lo so che anche tu sei... Che sei... Ma ancora non riesco a crederci...

    - Beh, questo è naturale. Ti abituerai. Ci abitueremo...

    Davanti a me c’è una porta carraia, preceduta da una rampa. La saracinesca è sollevata. Uno degli infermieri corre verso l’interruttore, vuole abbassare la saracinesca per bloccarmi la strada. Cristina me lo indica. Io sterzo per andargli addosso. Lo prendo in pieno con la fiancata destra, poi affondo l’acceleratore, grattuggiandolo contro una parete. Perde tutte e due le gambe, oltre a una quantità di organi interni.

    - Provaci adesso a rialzarti, stronzo!

    - Giulio! Non sei carino.

    Il camice di Cristina è passato dal bianco al carminio. Lei lo contempla sconsolata. Il sangue del tizio le è schizzato tutto addosso attraverso il finestrino, un vero schifo, ed è solo colpa mia.

    - Scusami, amore.

    - Dico per lui. In fondo stava facendo il suo lavoro.

    - Ti ho chiesto scusa. E’ che sono un po' agitato, tutto qui. E ora, dove vado?

    Oltre l’uscita ci sono altre due rampe, divise da una colonna.

    - A destra!

    La rampa è stretta, e piega secco da una parte. Me la faccio tutta in testacoda, devastando entrambi i guardrail con le fiancate. Ormai la BMW è il sogno di ogni carrozziere. Vabbé, tanto, a questo punto... Mi ritrovo fuori in men che non si dica. E’ sempre buio, e piove che Dio la manda. Vado ancora come una palla di cannone, senza parabrezza, con il vento e l’acqua sulla faccia, e non vedo un accidente di niente. Una sirena ulula nel buio. Cristina si gira, preoccupata.

    Dietro di noi si accendono dei lampeggianti: una delle ambulanze si è messa all’inseguimento. Cerco di asciugarmi gli occhi con il dorso della mano. Imbocco un rettilineo, quattro corsie, deserto. Metto la quarta, poi la quinta: i pneumatici radiali scaricano duecentotrenta cavalli sull’asfalto, la lancetta del tachimetro s’impenna, la BMW parte al galoppo. Vai bella, vai!

    L’ambulanza rimpicciolisce rapidamente nel retrovisore.

    - Col cavolo che mi stanno dietro, quelli.

    - Lo vedi? Sei il solito fanatico.

 

VIII

   

    Proseguiamo nella notte, nel buio. Non ho più gli alogeni, ma i fendinebbia funzionano ancora. Li accendo, e finalmente ci vedo un po' meglio. Poi metto della musica, qualcosa di soft. Cristina si rilassa sul sedile.

    - Mantieniti sulla strada, Giulio. Vai dritto. Lascia perdere gli svincoli.

    - Perché, dove portano gli svincoli?

    - E’ meglio che tu non lo sappia...

    Guardo a destra e a sinistra. Oltre i margini della strada, all’orizzonte, vedo luci lontane, rossastre, che brillano nella notte. Una città, forse. O fuochi fatui della foresta. O vulcani. Chi può dirlo? Continuo ad andare forte, nella corsia centrale. Mi sembra di guidare in un limbo senza tempo: niente passato, niente futuro, la donna dei miei sogni accanto a me... Potrei continuare per sempre, se non ci fosse questa dannata pioggia. Sono fradicio fino alle ossa.

    - Cristina... Tu lo sai, vero, dove stiamo andando?

    - Ma certo.

    - Ecco, allora... Giusto a titolo di curiosità... Non è che posso saperlo anch’io?

    Lei sorride, senza rispondermi.

    Non la sopporto, quando fa così.

 

    Lo vedo solo dopo un bel po' di chilometri. Prima è una macchia blu all’orizzonte. Poi, man mano che mi ci avvicino, si fa più definito, familiare. Un cartello stradale.       L’indicazione per Linate. Guardo Cristina, lei guarda me. E capisco.

    Siamo di nuovo nel film.

 

IX

 

    Esterno notte. Giulio e Cristina nell’auto, sotto la pioggia. Lui è rimasto a bocca aperta.

 

GIULIO - E adesso, che succede?

CRISTINA - Non lo immagini?

GIULIO - Un’idea me la sono fatta... Ma volevo sentirlo da te.

CRISTINA - Ti capita mai di avere rimpianti, Giulio? Voglio dire... Ci siamo conosciuti solo pochi mesi fa, no?

GIULIO - E’ vero. E tu non mi filavi neppure di striscio.

CRISTINA - (Ride) Certo che non ti filavo, basso e brutto come sei...

GIULIO - Bugiarda. Non sono così basso.

CRISTINA - Ma neppure alto. E che tu sia brutto, non c’è alcun dubbio.

GIULIO - Però sono simpatico...

CRISTINA - Devo anche dire che scopi mica male...

GIULIO - Grazie, madame. Lo considero un grande complimento.

CRISTINA - ...E che hai trovato il modo, non so come, di farmi innamorare di te...

GIULIO - La Bella e la Bestia. Una storia vecchia come il mondo.

CRISTINA - Una storia breve.

GIULIO - (Dopo una pausa) ...Già.

CRISTINA - Il momento più importante. Giulio... Il nostro ultimo momento... Oh, Dio, sembra così stupido da dire... Beh, non ce lo siamo goduto. E’ arrivato all’improvviso... Eravamo tesi, arrabbiati, spaventati... Non abbiamo potuto condividerlo come meritava...

GIULIO - E’ vero.

CRISTINA - Ecco, questo è il rimpianto più grosso, per me. E ora... Beh, ora stiamo tornando indietro. Siamo vicini al... Al confine... La linea che separa “questa” parte da quell’altra... Fin là ti posso accompagnare... E forse, proprio sul limite...

GIULIO - Sì. Forse...

 

    La macchina prosegue la sua corsa nella notte. Piove sempre meno, fino a smettere del tutto. La nebbia, in compenso, si fa più fitta. Giulio però non rallenta, anzi... A un tratto, davanti a lui appaiono i fanalini posteriori di un’auto che procede quasi altrettanto veloce. Una BMW, molto simile alla sua.

    Giulio legge la targa, con un sorriso.

 

X

 

    - A cosa pensi?

    Cristina mi guarda con aria interrogativa. Io stringo il volante, fissando i retronebbia della macchina davanti a me. La mia macchina. Stesso modello, stessa targa. Non ho più dubbi. Dentro quella macchina intravedo perfino due sagome confuse: un uomo e una donna. Giovani, incoscienti.

    - Pensavo all’incidente. A noi due... L’ho rivisto tante di quelle volte... Mi sono fatto tutta la regia in testa, sai? Le musiche, lo storyboard... Potrei girarci un film domani. Un pezzo di grande cinema.

    - Come no? “Giulio e Cristina: La Conclusione”.

    - Beh, il primo episodio è stato un successo. Guardaci, siamo già nel sequel...

    Cristina sorride.

    - Così pare.

    - E il confine di cui parlavi è...

    - Davanti a noi. In quel posto. In quel momento.

    - Mmm... Sì. Lo immaginavo. L’ambulanza, piuttosto... Quella che ci inseguiva... Pensi che potrebbe arrivare fino a qui?

    - Non credo. Siamo già troppo oltre, per loro.

    - Anche per te?

    Cristina esita un attimo, poi si riprende. E’ decisa.

    - No, per me no. Io voglio andare fino in fondo.

    - D’accordo.

    Freno di colpo. La macchina decelera brutalmente, i pneumatici urlano, e dopo alcuni secondi siamo fermi sul ciglio della strada. Slaccio la cintura di sicurezza.       Cristina mi osserva in silenzio, con gli occhi lucidi. Non c’è più bisogno di parole. Si sfila il camice sporco di sangue, con grazia. Adoro il suo modo di spogliarsi. Sotto non porta nulla. Ha il corpo bianco, intatto, a parte qualche piccola cicatrice. In quell’ospedale hanno fatto un buon lavoro. La gamba destra di Cristina, lunghissima, mi scavalca. E in un attimo lei è sopra di me. Mi aiuta a liberarmi dai vestiti. La stringo, facendo scivolare le mani sul suo viso, sui capelli, sul seno, sulle natiche. La vedo chiudere gli occhi. Scivolo piano dentro di lei. Sospira, chiamandomi per nome.         Poi comincia a muoversi.

    Ed è con me. Con me. Morbida. Sinuosa. Vera.

    V-Viva...

 

    Ci stacchiamo lentamente, guardandoci negli occhi. E’ ora, lo sappiamo tutti e due.

    Cristina, agile come un gatto, ritorna al suo posto. Io sono ancora un po' stralunato. Lei mi accarezza i capelli. Dolce. Commossa.

    - Sei pronto?

    - Sì. Adesso sì.

    Il motore stavolta parte al primo colpo. Mi rimetto in strada, prendendo velocità. Cristina mi sorride. Né lei né io allacciamo la cintura.

    La ritrovo dopo qualche chilometro, in mezzo alla nebbia. La mia BMW. E’ come se mi stesse aspettando. Accelero ancora, la raggiungo, sfioro il suo paraurti posteriore con il muso. Procediamo così, incolonnati, per un minuto buono, aumentando la velocità. I due davanti non sembrano essersi accorti di noi. Le braccia di Cristina mi circondano il collo, le sue labbra si posano sulle mie. Sì, è ora.

    Spingo l’acceleratore a tavoletta. Affondo nell’altra macchina come un gabbiano in una nuvola, senza incontrare alcuna resistenza. Le auto si sovrappongono perfettamente, fino all’ultima scocca, fino all’ultimo tubicino. Cristina e io ci congiungiamo agli altri due, agli altri noi stessi, rientrando in punta di piedi nel passato.

    E corriamo con loro verso il confine.

    Poco più avanti, un furgone lento come una lumaca cambia corsia per superare una Smart. Lo vedo per un attimo, mentre sbuchiamo come bolidi dalla nebbia, Cristina e io. Uno accanto all’altra.

    Insieme.

    Dissolvenza.

 

XI

 

   - Mi sente, Silvestri? Riesce a sentirmi?

    - Ha aperto gli occhi...

    - Xè un miracolo. Madonna, proprio un miracolo...

    Metto a fuoco le sagome intorno a me, emergendo ancora una volta dal buio. Ci sono tutti: Laganà, i suoi assistenti, perfino Margherita. Tutti intorno al mio letto, con le facce commosse. Ho una maschera a ossigeno sulla bocca, tubicini nel naso, flebo nelle braccia e un male cane dappertutto.

    Margherita guarda Laganà con ammirazione. Sembra lì lì per abbracciarlo.

    - L’ha salvato, dottor. Giera più di là che di qua, il povero sior Silvestri...

    Laganà fa finta di non starla a sentire, ma è arrossito. E’ sensibile ai complimenti.

    - Ha avuto un brutto arresto cardiaco, mio caro amico. L’abbiamo tenuta in rianimazione per quasi due giorni. E poi sono insorte delle complicazioni... Francamente non speravo più in una sua ripresa.

    Sempre ottimista, Laganà...

    A questo punto, dato che ormai hanno capito che sono sveglio, mi esibisco nel classico “dove sono”.

    - D-Dove sono?

    - Ma in ospedale, Silvestri, dove vuole che sia? Ci ha fatto lavorare, sa? Ci ha fatto proprio lavorare sodo. E speriamo che sia l’ultima volta.

    Le flebo sulle braccia mi impediscono di toccarmi. Lo faccio mentalmente.

    - Dottor Laganà...

    - Sì, Silvestri?

    - Perché non se ne va un po' a... A farsi fottere?

    - Ma... C-Che cosa dice? - Un assistente interviene, prende per un braccio Laganà.

    - Sragiona, dottore. E’ evidente. Non è ancora in sé...

    Si allontanano, borbottando. Margherita mi guarda con aria severa, ma poi le viene da ridere. Le faccio l’occhiolino.

    Lei ricambia, e si volta per sistemarmi la coperta sulle gambe.

    Ve l’ho già detto che ha un gran bel culo?

   

XII

 

    Mi dimettono dopo tre settimane. Margherita, nel frattempo, ha fissato il giorno delle nozze. Naturalmente sono fra gli invitati, ma non credo che ci andrò. Non ho voglia di festeggiamenti, in questo periodo. Passo il tempo a leggere e guardare la TV, spendendo i soldi dello spot sull’aperitivo. Col cazzo che lo hanno sospeso, anche dopo la morte di Cristina. Quegli stronzi. Forse cambio lavoro, ho quasi deciso.

    Non esco con altre donne, non me la sento. Penso a Cristina. E anche se non oso confessarlo neppure a me stesso, spero ancora di rivederla. Da qualche parte, laggiù, i morti curano i vivi dalla Vita, no? Che cosa aveva detto, Marbas?

    E’ un brutto germe, la Vita... Resistente, insidioso... Se si dovesse propagare qui da noi potrebbe succedere di tutto... Gente che se ne sta tranquilla da decenni, ma che dico? Da secoli, da millenni, perfino, proverebbe di nuovo quel formicolio, quella scintilla... E avrebbe la tentazione di, ecco... Di ritornare.

   

   Cristina e io abbiamo fatto l’amore, là, sul confine.

    Potrei averla contagiata. Contagiata con la Vita. E magari un giorno o l’altro...

   

    Compro parecchi libri sul paranormale, sull’Aldilà. Non che sia diventato morboso, però per qualche tempo li leggo con interesse.

    In uno c’è perfino il nome di Marbas. Un certo Johann Weyer, illustre demonologo olandese del Cinquecento, ne parla come del Demone delle Malattie. Una specie di “barone” infernale, insomma, con una propria specifica area di influenza, e personale adeguato.

    Chissà se questo Weyer, quando è toccata a lui, si è fatto un giretto nel suo reparto...

   

    Ci metto un paio di mesi a stufarmi delle discipline esoteriche e negromantiche.    Provo anche a raccontare tutta la storia a uno psicologo, così come la ricordo. Quello prende appunti. Mi dice che ho una bella fantasia, d’altronde è il mio mestiere... Il subconscio, secondo lui, ha fatto di me l’eroe di un film, o di un fumetto. Sesso, sangue, scene d’azione, inseguimenti... Ho mediato l’esperienza di pre-morte attingendo al mio background letterario e cinematografico, trasformandola in un’avventura alla Indiana Jones. E questo denota...

    Denota che mando a farsi fottere anche lo psicologo.

   

    L’ultima volta che mi faccio coinvolgere è a una conferenza su “La vita dopo la morte”, in un auditorium nel centro di Milano. C’è una quantità di esperti o presunti tali, in platea. E tutti i testimoni chiamati al microfono - gente che ha avuto arresti cardiaci, o periodi di coma profondo - fanno descrizioni idilliache di lunghi tunnel lucenti, di voci amiche che li accolgono all’arrivo...

    Dicono di non aver più paura di morire, loro. Perché di là si sta meglio, giurano. Di là sono tutti buoni, bravi e gentili... E gli altri, dalla platea, applaudono. Rassicurati.

   

    Io invece comincio a ridere, irrefrenabilmente.

    Non smetto neppure quando due inservienti vengono a buttarmi fuori.

 

 Copyright©Pasquale Ruju, 20 maggio 2000.