Jael: rapporto confidenziale

 

 22° 59′ 18″ S, 43° 14′ 54″ W, le nostre coordinate.

 

   Non che sia andato a puttane tutto subito, questo no. Ma quando entrammo nella favela, Sam Wong e io, la cosa era già abbastanza avanti.

   Eppure, intorno a noi, tutto sembrava tranquillo.

   Tranquillo, beh, calma. Diciamo relativamente al contesto.

   Parliamo della Rocinha, la più grande favela di Rio de Janeiro. Centocinquantamila abitanti, o forse duecentomila, non esiste un censimento, nessuno lo sa di sicuro. Quaranta, cinquantamila anime per chilometro quadrato, nessuna amministrazione pubblica, niente polizia. Una terra senza legge, a due passi dagli eleganti condomini di Gavea e Barra da Tijuca. Una tentacolare, brulicante propaggine aliena che sembra incombere sulla baia più bella del mondo. Fa impressione vederla da laggiù.

   Non che tu possa guardare una favela tenendo i piedi al caldo sulla sabbia di Copacabana, tra i culetti dondolanti delle mulatas, e credere di aver capito un cazzo di qualcosa di Rio, o della vita in generale.

   Va bene, va bene. Torno al punto.

   Superammo senza difficoltà il posto di blocco della Policìa Rodoviaria Federàl, a bordo della piccola Fiat Palio noleggiata dal mio scontroso compagno di squadra, e ci infilammo nella strada principale di quell'alveare umano, l’Estrada da Gavea, quasi a passo d’uomo. Guidavo io.

   A guardarci, eravamo due tipacci qualunque, un italo-francese e un cinese di Hong Kong, spalle larghe, camicie a fiori e occhiali da sole, a bordo di una utilitaria vecchiotta e un po' ammaccata. Potevamo passare per turisti, o a un occhio più attento per amigos dos amigos, membri di una delle tante gang dedite al narcotraffico, che spadroneggiavano tra i favelados.

   Un paio di grosse 4x4 blindate, parabrezza e finestrini neri come la notte, ci sorpassarono senza fermarsi. Erano veri narcos, quelli, autentici tagliagole a denominazione di origine controllata, ma non mostrarono alcun particolare interesse nei nostri confronti.

   Bene. Forse, in fin dei conti, non davamo troppo nell'occhio.

   Non ci occorreva molto tempo, dovevamo restare da quelle parti per venti minuti, mezz'ora al massimo. Entrare, fare quello che eravamo venuti a fare e filarcela alla svelta. Liscio. O almeno quello sarebbe stato il piano.

   Sarebbe stato, certo. Come no?

   Comunque.

   Se sente la parola favela, uno a volte si fa un'idea sbagliata. Imprecisa, è meglio dire. Pensa a un posto fetido e degradato, popolato da poveri cristi che muoiono di fame, tra malattie, topi e scarafaggi. Questo è certamente vero per alcuni infernali agglomerati dell'Asia, del centro Africa o del Brasile stesso, ma non per la Rocinha. A vedere la strada principale, infatti, somiglia piuttosto a certi sobborghi del Mediterraneo, come le cités di Marsiglia, o i quartieri spagnoli a Napoli. Gente che chiacchiera, giovani mamme con schiere di mocciosi al seguito e pancione con il prossimo in arrivo, mercatini, ragazzi in maglietta e bermuda che rincorrono una palla, cose così. Più tranquillo e di certo meno pericoloso di alcune vie del centro di Rio, o della spiaggia di Ipanema a certe ore di notte, per dirne una.

   Ai narcos conviene mantenere l’ordine, e perfino un certo decoro, in modo da avere i favelados dalla loro parte. Centomila persone conniventi, la vicinanza alla ricca clientela dei quartieri di lusso e un circondario che è un incubo tattico e logistico per qualunque squadra d’assalto, costituiscono la miglior base operativa che un trafficante di droga possa mai desiderare. Quando arrivano i blindati del BOPE, o della Policìa Pacificadora, gli basta inabissarsi, scomparire fino a che non si siano calmate le acque, per poi riprendere tranquillamente a fare i propri affari.

   Ma questo non interessava Sam e me, al momento. Ciò che ci interessava era che in quel posto dimenticato da Dio, fra quelle casette dal tetto di lamiera abbarbicate sul fianco della montagna, fosse prigioniera Jael.

   La donna per cui entrambi lavoravamo.

   Proprio in quell’istante, con tutta probabilità, qualcuno la stava picchiando, torturando o violentando in modi a cui preferivo non pensare. Merde! Le facevano del male, ci ridevano su, forse le sputavano addosso.

   L’idea mi faceva semplicemente impazzire, mi mandava il sangue al cervello. Ma dovevo controllare la rabbia. Bisognava trovarla, a tutti i costi.

   E poi qualcuno l’avrebbe pagata cara, laggiù, sicuro come la morte.

   - Io vado, resta qui - disse Sam. Era la prima volta che apriva bocca, da ore.

   - Non ci mettere troppo - risposi.

   Lui scese dalla macchina, lasciando le chiavi nel quadro, e si diresse verso un piccolo market con le sbarre alle vetrine, intorno al quale stazionavano gruppetti di sfaccendati. Non era proprio un giardino dell’Eden, là fuori. Puzza di benzina, asfalto e maiale arrosto, mi seguite? Umidità al cento per cento, caldo da schiattare. Sam però non pareva farci caso. Si mise in coda alla cassa, e intanto teneva d'occhio la situazione.

   Mi allungai sul sedile con il mio vecchio Nokia in mano, fingendo di digitare un sms. La Smith & Wesson .45 automatica, corta e compatta, la tenevo in una fondina fissata alla cintura, al centro della schiena. Mi auguravo che sotto la camicia hawaiana non si notasse.

   Dopo un paio di minuti, l'amico giallo tornò verso di me, con una confezione da sei lattine di birra Brahma. Ne portò una alla bocca. Io lo guardai e feci un piccolo cenno con la testa. Sam detestava la birra, da sempre. Quelle lattine erano un segnale.

   Guai in vista!

   Ricordate quando ho detto che sarebbe andato tutto a puttane?

   Un altro po' di pazienza, ci arriveremo.

 

   L’ho iniziata così, la storia, per farvi capire in che fottuta situazione ci eravamo andati a infilare. Ma ora che ci penso, sarebbe meglio tornare un po’ indietro. Mi viene in mente che forse non sapete alcune cose, tipo chi sono io o chi è Sam, ad esempio. Per non parlare di Jael.

   E va bene, dai, ci va un piccolo prologo.

 

   Mi chiamo François-Luc Costa, Frank, per gli amici. Non che ne abbia poi così tanti, di amici. Si fa per dire, mi spiego? Sono nato su una piccola isola fra Corsica e Sardegna, una di quelle che le navi di Napoleone bombar-darono durante la campagna del 1793. Solo che i miei antenati non la presero bene, cose che capitano a chi vede piovere palle di piombo rovente da 32 libbre su case che ha costruito con le proprie mani. Così alcuni di loro, nottetempo, piazzarono un paio di cannoni da 15 su un’altura che dominava la flotta francese e si misero d’impegno per ricambiare la cortesia. Costrinsero il povero Bonaparte, che fino ad allora non era mai stato sconfitto, a filarsela con la coda fra le gambe e non tornare mai più da quelle parti. Tanto per dire quanto erano cazzuti, gente da prendere con le molle. E non è che siano tanto cambiati, da allora.

   Mio padre però, in tempi più pacifici, decise di attraversare lo stretto. Sposò una bella e selvaggia giovane donna di Bastia e così, alla nascita, mi ritrovai per metà francese. Quando compii dieci anni, dopo la morte del mio vecchio, mia madre mi riportò lassù, nel nord della Corsica. Voleva tornare a vivere nel posto in cui era nata, disse. A me toccò crescere in un ambiente nuovo, e per nulla amichevole. Non che fossi un tipetto facile, già allora. Ci sapevo fare con i pugni e il coltello, e col tempo finii per stringere allarmanti sodalizi con personaggi della Brise de mer, una banda di duri, deriva criminale del nazionalismo corso, che gli sbirri della gendarmerie temevano come la peste. Feci qualche lavoretto per loro, nulla di che, ma abbastanza da ritrovarmi a diciotto anni davanti a un bivio: intraprendere la carriera di fuorilegge, una vita fra montagne e galera, oppure entrare nell’esercito.

   Ero tosto, cattivo, discretamente antisociale e con qualche precedente, dunque non c’erano molte altre opzioni per me. Scelsi la seconda, e un paio d’anni dopo mi ritrovai nel leggendario Commando Hubert, gli incursori di marina francesi. Un addestramento da fare impallidire le checche in kepi della Legione, in acqua, in terra, in cielo, sei anni di ferma al servizio della République, e alla fine un congedo onorevole.

   Beh, più o meno, ma questa è un’altra storia.

   Nel frattempo, anche mia madre se n’era andata, dopo una breve lotta contro un tumore al fegato. Seguì un periodo confuso, che non ho troppa voglia di ricordare.

   E ancora dopo, parecchio dopo, in un locale notturno di Singapore conobbi Jael.

   Da allora, ho scoperto parecchie cose su di lei. Ve ne dico giusto un paio, visto che ormai siamo in confidenza.

 

   Il suo vero nome pare sia Jasmine Ellis. Per i meno svegli fra voi, Jael ne è la contrazione. È per metà americana e per metà vietnamita, due razze e due patrie, un po’ come me, ma a differenza di me lei è bella.

   No, non bella, è bellissima, cazzo.

   Non troppo alta, snella, felina, occhi dal taglio vagamente orientale ma grandi e verdi, ipnotici. E capelli nerissimi, lunghi e lisci come seta. Un’apparizione, per chi la vede la prima volta. E anche dopo non è ti lasci indifferente, anzi. Ci vuole un po’ per abituarsi.

   Se ora pensate che il suo aspetto potrebbe trarre in inganno, ve lo confermo: altroché se può trarre in inganno! Quando le circostanze lo richiedono, quella donna minuta e fragile è in grado di diventare spietata, sanguinaria, come la Jael assassina di Sisara, il generale canaanita di cui parla la Bibbia.

   Cito i versetti a memoria, Libro dei Giudici, 4/21:

   “Allora Jael, moglie di Heber, afferrò un piolo della tenda e prese in mano un martello, si avvicinò pian piano a Sisara e gli piantò nella tempia il piolo, fino a farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito; e così morì.”

   Capito il tipo?

   Ha saputo sopravvivere a un’infanzia misera e terribile e arrivare fino ai vertici della criminalità organizzata dell’estremo Oriente. Era già bellissima, allora, e a sedici anni sposò un uomo di nome Zhao, che aveva creato un piccolo impero fatto di case da gioco, traffici di armi, pirateria e spionaggio industriale. A un certo punto, però, il potere di Zhao fece ombra a qualcuno, così quel qualcuno mandò una squadra di killer a eliminarlo. Dopo la sua uccisione, Jael perse tutto, e si ritrovò un’altra volta sull’orlo dell’abisso. Le era rimasto solo un night-club molto esclusivo, nel centro di Singapore.

   Il “Red Dhalia”.

   Lei decise di farne la sua base operativa, e da lì organizzò la riscossa. Sei mesi dopo, a poco più di 30 anni, era nota a tutti i capi delle principali organizzazioni criminali d’oriente e d’occidente. Servendosi di pochi uomini fedeli, aveva vendicato la morte del marito e la distruzione del suo impero con un tale bagno di sangue e una ferocia tanto impressionante da guadagnarsi la loro considerazione e il loro rispetto. Così, a poco a poco, boss piuttosto importanti cominciarono a rivolgersi a lei per opinioni e consigli, e a volte per un aiuto sul campo, ovviamente a pagamento. Una cosa ha finito per tirare l’altra, e ormai la convocano sempre più spesso al fine di mediare e risolvere casi piuttosto complicati, come evitare massacri e guerre tra bande, per fare un esempio, o punire elementi devianti dei grandi clan. O anche, talvolta, delinquenti comuni che commettono delitti particolarmente efferati e sgraditi ai boss.

   Perfino i servizi segreti la contattano ogni tanto per i loro affari più sporchi. Le cosiddette missioni “bagnate”, di solito assai remunerative. Jael le adora. Non è più una donna ricca, ma vive come se lo fosse, grazie al suo particolare mestiere. É fredda, efficiente, ed è considerata infallibile. Può trasformarsi in una killer astuta e calcolatrice, oppure in una geisha appassionata, in grado di sedurre e manipolare anche il più figlio di puttana dei suoi bersagli.

   Il suo ruolo, però, non è quello di una semplice assassina: lei è ambasciatrice, mediatrice, e solo se è il caso anche giudice e boia. Risolve i problemi delle organizzazioni quando i loro capi non sono in grado di risolverli da sé, ed è considerata a tutti gli effetti dispensatrice di una “giustizia” criminale, riservata ai criminali.

   Il suo night-club è intoccabile, da chiunque, ed è anche il luogo dove la puoi rintracciare, se hai un problema per cui non è il caso di rivolgersi alle autorità.

 

   Ho detto tutto? No, c’è ancora qualcosa.

   Ha un tatuaggio Irezumi sulla schiena, opera del grande maestro giappo-nese Horiyoshi. Raffigura la Fenice che sorge dalle sue ceneri, e dal solco fra le natiche sale su fino alla nuca. Una vera opera d’arte, anche se non sono in molti coloro che hanno avuto il privilegio di vederla. Jael se l’è fatta fare in ricordo di Zhao, suo marito. Ormai la Fenice è per lei un segno caratteristico, a volte anche il suo nome in codice. Dice che le porta fortuna.

   Finora, almeno, è stato così.

   Ama le sigarette Gauloise, lo champagne Krug millesimé, la nouvelle cousine e il sushi. Porta spesso sandali alla schiava, con tacchi vertiginosi. Lingerie di Simone Pérèle. Vestiti di Versace, di Abed Mahfouz e di Jean Paul Gaultier.

   Ascolta e canta le canzoni delle grandi interpreti americane, italiane e francesi. Suona il pianoforte, piuttosto bene, devo dire. E poi legge, legge libri di filosofia orientale e occidentale, Lao Tzu e Schopenauer, la “Genealogia della morale” di Nietzsche e gli “Yogasutra” di Patanjali. Ha una inclinazione per gli affari e per la borsa. E per me, anche se questo non piace molto a Sam Wong.

 

   Sam, già, lui non ve l’ho ancora presentato.

   Parla poco, ha una cinquantina d’anni, ed è da molto tempo la guardia del corpo di Jael, il suo autista, il suo cane fedele. Un tempo era la miglior pistola al servizio di Zhao. È l’unico sopravvissuto alla strage dei suoi uomini, e a quanto pare fu lui a salvarle la vita, dopo la morte del marito. L’ha aiutata a fuggire e protetta, eseguendo l’ultimo ordine del suo capo. Ma tanto l’avrebbe fatto comunque. È un tipo duro, veloce e pericoloso. Conosce Jael da quando era una poco più che una bambina e si farebbe uccidere per lei. È pronto a difenderla da chiunque, dovunque e in qualunque momento, con ogni tipo di armi.

   Tra Sam e me c’è stata fin dall’inizio, e temo che ci sarà per sempre, una sorda rivalità. La colpa, se di colpa si può parlare, è ancora di lei, della donna che ci accomuna.

   L’amiamo entrambi, a modo nostro, ed entrambi ne siamo un po’ gelosi. Perciò tengo d’occhio Sam, e lui tiene d’occhio me. Due maschi alfa con grosse palle e grosse pistole, tutti e due nella stessa squadra. Detta così, non prometterebbe nulla di buono, e invece, incredibilmente, lavoriamo bene insieme, come una macchina bene oliata.

   Una macchina da guerra, se ancora non l’aveste capito.

   Pregate che non ci tocchi mai di bussare alla vostra porta.

 

   Bene, dov’ero rimasto? Al prologo, sì.

   Coraggio, è quasi finita.

   Se siamo capitati alla Rocinha è perché due grandi organizzazioni criminali di Rio, il Comando Vermelho e il Terceiro Comando Puro, o TCP, avevano convocato Jael per dirimere una questione, prima di essere costretti a dichiararsi guerra.

   Il responsabile di tutto era stato un uomo del TCP, Candido Ribeiro, detto Gato Louco. Uno dei “colonnelli” dell’organizzazione, imparentato con alcuni grandi capi, che aveva saputo farsi spazio fino ad assumere pian piano il controllo sui traffici di coca e metamfetamine dell’intera favela.

La cosa, ovviamente, non fece piacere a quelli del Comando Vermelho, che un tempo erano il clan più potente della regione, e ancora oggi restano piuttosto pericolosi. Ma nemmeno loro volevano un nuovo conflitto armato, a meno che non diventasse inevitabile.

   Tutti, a Rio, ricordavano ancora lo scontro fra Eduíno Eustáquio de Araújo Filho, detto Dudu, e Luciano Barbosa da Silva, in arte Lulu, per il controllo della Rocinha alla fine degli anni ‘90. Una guerra che costò molte vittime, anche fra i semplici passanti, costringendo le autorità a reagire e assestare finalmente un colpo duro alle organizzazioni coinvolte negli scontri. Il Comando Vermelho fu decimato e rischiò di scomparire, in quell’occasione, perciò col tempo i grandi capi si erano fatti più prudenti.

   Ormai Candido Ribeiro era diventato troppo potente, protetto dai legami di sangue con i vecchi boss e con troppi uomini fedeli solo alla sua persona. Non sarebbe stato facile eliminarlo, o convincerlo a tirarsi indietro.

   Così pensarono a Jael.

   Le diedero l’incarico di indagare su di lui, vedere quali fossero i suoi punti deboli e poi organizzare un incontro. Ribeiro naturalmente aveva sentito parlare di quella donna, la conosceva di fama. Poteva essere convinto ad accettare una trattativa, con i giusti argomenti.

   In caso contrario, tra una mattanza che avrebbe coinvolto l’intera città e la testa di Gato Louco, beh, la scelta sarebbe stata facile.

   Una volta emessa la sentenza, ci saremmo occupati noi dell’esecuzione. Così i grandi capi, compresi i parenti del ribelle, avrebbero potuto tornare a fare affari d’amore e d’accordo, senza essersi sporcati le mani.

   Tutto questo, ovviamente, in teoria. La pratica si sarebbe rivelata molto più complessa e difficile.

   Come sempre.

 

   Partimmo per Rio de Janeiro su un volo Air France, in Business Class, scalo a Parigi. Viaggio lungo, ma confortevole. Una volta a destinazione, con dodici ore di jet-leg da smaltire, ci sistemammo al Caesar Park Hotel di Ipanema, un imponente cinque stelle a ridosso della spiaggia. Sam e io occupammo una camera a due letti accanto alla suite di Jael. I nostri amici del Comando Vermelho ci avevano riforniti di armi, roba seria, in ordine, con buone scorte di munizioni. Volevamo essere pronti a intervenire in qualunque momento.

   Non mi disturbava dormire con Sam Wong. È un tipo estremamente pulito e ordinato, e a differenza del sottoscritto non russa mai. Quanto a lui, non si lamentava. Forse si sentiva rassicurato dal fatto che fossi steso lì accanto e non, metti caso, nel letto della sua padrona.

   Jael non ha mai fatto sesso con Sam, o almeno non credo, ma questo, ve l’ho già detto, non gli impedisce di essere geloso come un Otello, specialmente di me.

   Misteri della vita e dell’amore, sapete.

 

   Nei giorni successivi, mentre noi due dormivamo a turno, Jael incontrava persone, faceva telefonate, mandava e riceveva mail. Alla fine chiamò anche un suo vecchio amante, il capitano Nivaldo Dias, del BOPE, la potente e super addestrata squadra operativa della polizia brasiliana. Ne avete sentito parlare, vero? I migliori corpi speciali del mondo, gente che insegna antiguerriglia agli israeliani, tanto per dire. E che all’occorrenza non si sottrae a pratiche amene come la tortura o l’omicidio a sangue freddo.

   Quando entrai nella suite, dopo aver bussato discretamente alla porta, Jael era al telefono con lui. Aveva tirato fuori la voce roca, da gatta felice. Quella delle grandi occasioni. E indossava solo un accappatoio di spugna candida, che le lasciava scoperte le lunghe gambe. Era appena uscita dalla Jacuzzi, la sua pelle era ancora calda, leggermente arrossata. Come al solito, mio malgrado, avvertii un piccolo tuffo al cuore. Comunque, mi fermai vicino alla porta e attesi. Pazientemente.

   - Ma certo, tesoro. Seguro, meu amor. Ti ho pensato tanto. Ma come, non ci credi? Giuro che è vero. Ho voglia di vederti, noi due soli. Mmm...

   A quel punto, alzai un sopracciglio. Stavo per aprire bocca, lei se ne accorse e mi fermò con un gesto.

   - A casa tua, certo. E mi darai quelle informazioni. Sì, la persona di cui ti ho parlato. Molto bene. A stasera, allora, ti saluto. Ti mando un bacio dove sai...

   Mi guardò, mentre lo diceva. Credo si divertisse. Quanto a me, cercai di mantenermi distaccato, professionale.

   Merde, come se fosse facile.

   - Non è una buona idea - dissi, quando mise giù la cornetta.

   - Lo è, invece - rispose lei. - Nivaldo Dias conosce bene la situazione, e sa molte cose su Gato Louco, forse più dei suoi stessi padrini. Notizie che ci costerebbe troppo tempo reperire altrove.

   - Perciò lo vedrai.

   - Lo vedrò.

   - E...

   - La cosa ti disturba?

   Continuava a fissarmi, con un sorrisetto. In quei momenti, vi giuro, le darei una sberla. O forse le strapperei l’accappatoio di dosso e la prenderei così, sul pavimento. Questo se fossi un tipo impulsivo, ovviamente.

   - Sei tu il capo – risposi invece.

   - Ottima risposta. Eri venuto a dirmi qualcosa?

   - Sì. Sam e io facciamo i turni, finché si sta in hotel, ma stasera ti scorteremo tutti e due! - la pronunciai in tono deciso, quest’ultima frase.

   - Non se ne parla.

   - Ascolta...

   - Non se ne parla, ho detto. Nivaldo verrà a prendermi alle otto, con la sua macchina. È un professionista, si accorgerebbe di essere pedinato. Non mi serve se si insospettisce, mi serve che si senta al sicuro. Deve fidarsi di me.

   Si era alzata, mentre parlava. Accese una sigaretta, una Gauloise.

   - E poi, - concluse - non mi farà niente che non mi abbia già fatto in passato. Molte volte, in molti modi diversi. È un tipo pieno di fantasie, Dias. A ripensarci, la cosa non mi era affatto dispiaciuta.

   Mi voltai e feci per uscire. Lei mi raggiunse in un attimo. Cazzo, se sapeva muoversi veloce. Mi posò una mano sulla spalla.

   - Scusami - disse - ho esagerato.

   - Non c’è niente di cui scusarsi.

   - È solo lavoro, giusto?

   - Giusto.

   - Andate a divertirvi, stasera, voi due maschietti. Siamo a Rio, no? C’è in giro tutto quello che un uomo possa desiderare.

   La guardai. L’accappatoio, forse per caso, si era aperto sul seno in modo commovente.

   - Tutto, è vero - annuii. Poi infilai la porta e lasciai la sua stanza.

   Detesto quei giochetti. Avevo il cuore a mille, il fiato corto, le pupille dilatate, per non dire del resto.

   Strega, pensai.

   Maledetta, magnifica strega.

   Io l’amavo.

 

   Nivaldo Dias si presentò alle otto, puntuale come un orologio svizzero. Parcheggiò una Mercedes CL bianco latte davanti all'ingresso ed entrò nella hall, lanciando le chiavi all'usciere senza neppure guardarlo. Fui io a guardare lui, invece. Lo scrutai per bene, fingendo di sorseggiare una caipirinha al bancone del bar, in mezzo a un gruppetto di turisti russi. Nivaldo era un tipo alto, almeno un metro e novanta, robusto, con baffi ben curati, basette lunghe e capelli nerissimi, probabilmente freschi di tintura e lucidi di gel. I muscoli delle braccia, davvero impressionanti, gonfiavano le maniche della camicia di lino. Si muoveva con la scioltezza rilassata dell'uomo d'azione, in forma e sicuro di sé stesso.

   Si muoveva come Sam, come me.

   Questo non mi piacque per niente.

   Lo vidi accendersi una Marlboro, incurante dei cartelli di divieto e delle occhiatacce di alcuni clienti. Poi guardò l'orologio. Aveva al polso un massiccio cronografo Hublot, in oro e acciaio nero. Si trattano bene quelli del BOPE, ricordo che pensai.

   Un po' troppo bene, forse.

   In quel momento Jael uscì dall'ascensore, sorridente e bellissima. Lo so, l’ho già usato, questo aggettivo. Mi vene da usarlo spesso, quando si tratta di lei. Indossava un abitino chiaro, piuttosto corto. Addosso a un'altra sarebbe parso uno straccetto, ma su Jael faceva la sua dannata figura. Capelli sapientemente raccolti in uno chignon, pochi gioielli, semplici, sandali bianchi di cuoio, niente borsetta.

   Una dea, solo per caso di passaggio fra i comuni mortali.

   La vidi prendere Dias per un braccio, accettare i suoi complimenti e un breve, significativo bacio sulle labbra. Poi uscirono. Fu in quel momento che mi mossi anch’io.

   Avevo già deciso di seguirli comunque, anzi, di precederli.

   Non era stato difficile scoprire dove abitava Dias, una graziosa villetta nel quartiere di San Conrado, a due passi dal Country Club. E non lontano dalla Rocinha. Li avrei aspettati là vicino, ben nascosto, fanculo agli ordini.

   C'erano in ballo cose più importanti della disciplina, quella notte.

 

   Arrivarono verso l’una, sulla Mercedes di Nivaldo Dias. Osservai bene la macchina. Non l’ultimissimo modello, ma lucida e potente. Il capitano era uno che ci teneva a ben figurare. Di sicuro aveva portato Jael in uno dei migliori ristoranti di Rio, all’Olympe, o all’Opium. Avevano mangiato e bevuto abbondantemente, tutti e due. Il vestito corto di lei sembrava leggermente spiegazzato, ma forse era solo una mia impressione. Mi trovavo dall’altra parte della strada, nascosto dentro un’utilitaria di cui avevo forzato la portiera, in un punto poco illuminato della Rua Moses. Li osservavo attraverso lo specchietto retrovisore, giocherellando con una sigaretta spenta.

   E mi giravano, oh, se mi giravano.

   Nivaldo, gran signore, scese per primo. Fece il giro della CL e aprì la portiera di Jael, fissandole le gambe mentre usciva dalla macchina. Lei lo abbracciò. Rideva forte e sembrava barcollare leggermente, ma a conoscerla come la conosco io, è probabile che fingesse. Poi entrarono in casa. Le finestre della villetta si illuminarono. Solo a quel punto decisi di accendere la Gitane che tenevo tra le dita, e scoprii che l’avevo praticamente ridotta in briciole, senza neppure accorgermene. Manco a dirlo, era l’ultima del pacchetto. Merde!

   La sagoma di Jael apparve a una delle vetrate, perfettamente in luce. Ora era nuda, di spalle, il tatuaggio sulla schiena, la Fenice nascente, in parte nascosto dai capelli sciolti. Restò lì per un momento, in attesa, e subito dopo vidi apparire anche Dias. L’abbracciò, baciandola a lungo, poi la fece voltare, mani contro il vetro. Di sicuro l’aveva fatto spesso con i poveracci che arrestava, si vede che era abituato. Si sistemò dietro di lei. Jael guardava verso la strada, lasciandolo fare. E sebbene fosse pressoché impossibile, fui certo che mi avesse visto, a dispetto della distanza e del buio. Dopo una piccola smorfia iniziale, sulle labbra le apparve il solito, maledetto sorriso.

   Al diavolo, pensai.

   Tenendomi basso, scesi dalla macchina. Ero stato un idiota. Non aveva alcun bisogno di me, controllava perfettamente la situazione. Cominciai ad allontanarmi a piedi, avevo un bel po’ di strada da fare per tornare all’hotel ed era tardi. Non c’era nessuno in giro. Peccato. Quasi speravo di incontrare un rapinatore o un teppista in cerca di guai, appostato nel buio.

   Qualcuno su cui sfogarmi, insomma.

   Ero appena arrivato all’angolo con l’Estrada Barra, quando vidi passare il furgone scuro. Fu facile notarlo, aveva la scritta “RIO SOL - LIMPEZA DE PISCINAS” sulla fiancata. Ma nessuno pulisce piscine a quell’ora di notte.

   Merde!

   L’istinto è una cosa che non si può spiegare, sapete. Lo sviluppi con il tempo e con l’esperienza. Fu proprio l’istinto a farmi voltare e tornare sui miei passi, un rivolo di sudore gelato sulla schiena, nonostante il caldo. Ti prego, fa’ che mi sbagli, pensavo. Fa’ che sia la mia solita paranoia, che non...

   Il furgone si era fermato proprio di fronte alla villetta di Dias, trecento metri più avanti. Un istante dopo, la porta della casa si aprì. Dias e un altro uomo, robusto quanto lui, trascinarono fuori Jael, ammanettata e imbavagliata. Era ancora svestita e si dibatteva, scalciando, ma non aveva alcuna possibilità contro di loro. Scordatevi le storielle in cui l’eroina cazzuta ed esperta di arti marziali prevale a mani nude su uno o più gorilla che pesano il doppio di lei. È una cosa semplicemente fuori dalla realtà. Dias si limitò a colpirla su un lato del collo, con il taglio della mano, e Jael crollò. Shuto-Uchi. Pregai che avesse trattenuto il colpo, una tecnica così poteva ucciderla. Dias e l’altro uomo la caricarono sul furgone senza troppi complimenti. Cominciai a correre come un pazzo, sfilando l’automatica dalla fondina. Non osavo sparare da lontano, per paura di colpire lei. Comunque, prima che arrivassi a tiro, il furgone era già ripartito, seguito dalla Mercedes di Dias.

   Impotente, a corto di fiato, li vidi prendere velocità e allontanarsi.

   Svoltarono sull’Avenida Niemeyer, a sinistra, diretti verso la Rocinha, e in breve il rombo dei motori, sempre più lontano, fu coperto dal ruggito delle onde del mare.

 

   Mi imposi di calmarmi, di riprendere fiato. Misi via la pistola e presi il cellulare. Il numero di Sam era in memoria. Lo avvertii appena in tempo, urlandogli di filar via alla svelta. Lui schizzò fuori dalla stanza, infilandosi in una scala di servizio. Una squadra di agenti del BOPE, armati fino ai denti, sfondò la porta della nostra camera meno di due minuti dopo. Fecero in modo di trovare un chilo di cocaina quasi pura nella vaschetta del WC. Sam uscì dall’hotel senza problemi, con addosso una divisa da inserviente rubata in magazzino. Da quel momento però eravamo dei ricercati.

   La faccenda diventava maledettamente seria.

 

   Non che fossimo impreparati a un’evenienza del genere. Ne avevamo già vissute di simili, in altre parti del mondo. Ovviamente i documenti lasciati all’hotel erano contraffatti, così come le nostre carte di credito. E in una cassetta di sicurezza all’aeroporto avevamo una buona scorta di reales, american express e passaporti nuovi di zecca. Per fortuna, lasciando la camera d’albergo, Sam aveva pensato a tirarsi dietro il trolley con le armi e le munizioni. Cinese previdente.

   A questo punto potevamo fidarci solo di noi stessi, e dei nostri ferri del mestiere.

 

   Mi avete seguito fin qui? Bravi. Così ora avete il quadro completo della situazione.

   Dunque, possiamo tornare alla Rocinha, dove il mio socio e io lasciammo in macchina la confezione di birre e tirammo fuori dal bagagliaio un simpatico trolley azzurro, che s’intonava perfettamente con la mia camicia a palme e pappagallini. Il trolley era piuttosto pesante, ma andava su ruote, appunto, e non era troppo scomodo. Lo trascinavo io su per la Estrada de Gavia, mentre il mio socio mi precedeva di qualche metro, gli occhi fissi sullo schermo del suo Blackberry.

   Aveva agganciato il segnale dal satellite.

   Gli uomini di Gato Louco di guardia alla strada, quelli che Sam aveva individuato nel market, cominciarono a seguirci. Erano una mezza dozzina, magliette colorate e bermuda con ampie tasche in cui tenevano le pistole. Avevano di certo la nostra descrizione. Volevano essere sicuri che non fossimo due turisti balordi capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato, altrimenti ci avrebbero già sparato addosso. Sam non li guardò mai, non so come fece, ma che nel momento esatto in cui passarono accanto alla nostra Palio, premette un tasto sul Blackberry. La carica collegata al serbatoio della macchina esplose fragorosamente, scaraventando per aria due o tre di loro. Gli altri si gettarono a terra, storditi e assordati. Alcune donne gridarono, a una certa distanza dall’auto, dozzine di cani presero ad abbaiare tutti insieme, ma nessun civile era rimasto ferito.

   Bene.

   Avevamo passato il primo livello.

 

   Lasciammo la strada principale e filammo su per una stretta scalinata, dopo aver tolto i “ferri” dal trolley. Ora non sembravamo più due turisti, questo è sicuro.

   Tanto per cominciare, sopra le camicie hawaiane avevamo indossato due giubbotti in kevlar Parnisari, a 32 strati. Roba italiana, fatta come si deve. Portavamo entrambi auricolari collegati a trasmettitori criptati, e a parte le pistole avevamo un fucile d’assalto per uno. Sam aveva scelto un Heckler & Koch G36, un gioiellino tedesco, corto e leggero. Io invece avevo preso l’M4, un cannone yankee munito di lanciagranate e mirino laser Red Dot. Pesava un po’ di più, ma aveva precisione e potenza di fuoco da vendere. In due, con quell’attrezzatura, avremmo potuto affrontare un piccolo esercito.

   Era proprio quello che ci accingevamo a fare, peraltro.

   Proseguimmo la nostra avanzata nel dedalo di scale e viuzze della favela. Ogni tanto incrociavamo un civile, che nel vederci fuggiva a gambe levate. Tutte le finestre si chiudevano e varie serrande si abbassarono, al nostro passaggio. Degli uomini di Gato Louco, finora, nessuna traccia. Probabil-mente molti di loro erano corsi sulla strada principale, attirati dall’esplosione della Palio. Buon per noi.

   Sam alzò un braccio, chiudendo la mano a pugno. Mi fermai, mentre lui controllava di nuovo il display del Blackberry. Aveva tracciato la posizione del nostro obbiettivo e mi indicò una costruzione alta e stretta, cento metri più avanti.

   L’avevamo trovata!

 

   Come avevamo fatto, dite? Beh, questo dovrebbe essere un segreto.

   Ah, insistete? Okay, okay, ve lo racconto.

   Tanto per cominciare, Dias e Ribeiro non si erano accorti del piercing. O meglio, di sicuro lo avevano notato, visto che si trova in un punto partico-larmente intimo del corpo di Jael, e forse ci avevano fatto su qualche battuta. Ma non si erano accorti di ciò che conteneva. Speravo solo che non lo avessero strappato via, cazzo, mi venivano i brividi a pensarci.

   Quel gioiellino, un Tiffany in oro bianco, aveva all'interno un minuscolo localizzatore gps. È come l'antifurto di un'auto di lusso, sapete, solo più piccolo. Molto più piccolo.

   Jael lo aveva avuto da un miliardario, genio dell'informatica e capitano d'industria, pazzamente innamorato di lei. In origine doveva servire a sorvegliarla, il tizio era follemente geloso e voleva sempre sapere dove si trovasse. Naturalmente, con l’aiuto di certi amici di Hong Kong, riuscimmo a craccare il codice di accesso del sistema. Jael si tenne il gioiellino e scomparve dai radar. Il povero miliardario, passatemi l’ossimoro, ci rimase malissimo, ma finì per consolarsi con una playmate ventenne, che al momento è impegnata a giocare a carica e svuota con le sue carte di credito, e sogna un divorzio a otto zeri.

   Ma sto ancora divagando. Era per dirvi che in caso di emergenza, Sam e io sappiamo sempre come ritrovare il nostro capo. Il Blackberry del cinese ha accesso al segnale del gps in tutto il mondo, e dove c’è il segnale poco dopo arriviamo noi, duri, incazzati e pesantemente armati.

   Ecco, ora voialtri conoscete il trucco. Quelli della Rocinha invece no, perciò non ci aspettavano, non così in fretta.

   Brutto errore.

 

   Il rifugio di Candido Ribeiro, detto Gato Louco, era una specie di assurdo architettonico, tipico della Rocinha: una torre fatta di casette addossate a una parete di roccia, una sopra l’altra, collegate da scale interne ed esterne, per nove piani. Vi si accedeva attraverso un ingresso principale, al piano terra, e da una terrazza, proprio in cima, costruita vicino a una piazzola sul bordo di una strada soprastante. Entrambi gli ingressi della torre erano sorvegliati da uomini armati di pistole e fucili a pompa. Molti uomini.

   Okay, era ufficiale, la nostra idea di un’operazione rapida e pulita era andata a puttane. Lo avevo detto, ricordate?

   Tutto a puttane.

   Adesso era il momento del piombo e del sangue.

  

   Sam e io ci separammo, dopo esserci divisi i compiti. A lui toccava la terrazza, e partì di corsa lungo una curva che portava alla strada più in alto. Io invece puntai all’ingresso principale, tenendomi al riparo di un muretto a secco. Aspettai che il mio socio fosse in posizione e lo chiamai con il trasmettitore.

   - Si va? - dissi.

   - Ora - rispose. La sua voce, nell’auricolare, suonò laconica come sempre.

   Sparai una granata verso i gorilla all’ingresso. Nessun civile in giro, da quelle parti, Gato Louco teneva alla sua privacy. Perciò potevo procedere tranquillo.

   L’esplosione della granata fece tremare i muri delle case vicine, molte vetrate andarono in frantumi. Quelli erano in guardia, avevano udito l’esplosione di prima, ma non si aspettavano di avere a che fare con un’arma da guerra. In tre rimasero sulla piazzola di cemento, corpi immobili e fumanti. Altri due, storditi, non riuscivano a capire cos’era successo. Li eliminai senza sprecare troppi colpi, con un paio di brevi raffiche. L’ultimo, tre buchi nel torace, piombò di schiena sulla porta, sfondandola. Niente blindatura. Gato Louco doveva sentirsi davvero al sicuro, laggiù.

   Tanto peggio per lui.

   Sparai un’altra granata all’interno, per sicurezza, poi scattai in avanti di corsa. Nell’avvicinarmi, notai la Mercedes bianca parcheggiata sotto una tettoia, di fianco alla casa. Nivaldo Dias era ancora là.

   Doveva essere rimasto a divertirsi.

   Dall’alto, risuonò la voce del G36 di Sam. Raffiche da tre colpi, una dietro l’altra. Ci furono anche un paio di spari singoli, sordi, probabilmente revolver dei gorilla di guardia. Poi, il silenzio. Sam doveva aver fatto piazza pulita sul tetto. Stava venendo giù, e io non sarei mancato all’appuntamento.

   Mica potevo lasciargli fare tutto il lavoro da solo.

   Il piano terra era invaso dal fumo e dalla polvere della seconda esplosione, perciò fui costretto ad avanzare quasi alla cieca. Trovai una scala interna e cominciai a salire.

   Al secondo pianerottolo, c’era un nero che mi aspettava. Magro e alto, con un AK-47 dal calcio segato. Pensava di essere un dritto, si era appostato dietro l’angolo della parete e aspettava che gli passassi davanti. Solo che aveva una finestra aperta alle spalle, e con il sole basso la sua ombra si allungava sul muro e sul pavimento. Avrei potuto sparargli attraverso la parete - i proiettili calibro 5,56 Nato dell’M4 avrebbero trapassato mattoni e cemento come se non esistessero - ma non osavo farlo. Jael avrebbe potuto essere là dietro con lui. Così, aspettai che si sporgesse, senza muovermi. Ci furono altri spari, ai piani superiori. Sam continuava il lavoro. Alla fine il nero cedette alla tentazione di allungare il collo verso la tromba delle scale, e si accorse solo all’ultimo momento del puntino rosso del mio laser che gli danzava sulla zucca.

   Sprecai un colpo solo, fu sufficiente.

   Poi ripresi a salire. Esplorai due stanze al primo piano, una cucina e un magazzino pieno di provviste. Nessuno dentro. La terza camera era una specie di officina, con un banco da lavoro e numerosi attrezzi appesi alla parete, che vedevo dalla porta aperta. Stavo per affacciarmi dentro, quando qualcuno mi sparò attraverso il muro, con una pistola piuttosto potente. L’amico non si faceva i miei stessi problemi. Incassai un proiettile blindato nel giubbotto, all’altezza dello stomaco, e andai al tappeto. Il fucile mi sfuggì di mano. Lo vidi rotolare giù per le scale, mentre cercavo di riprendermi dalla botta. Merde!

   A quel punto non mi restava che la Smith&Wesson. La tirai fuori, tentando faticosamente di sollevarmi da terra, ma un calcio potente e preciso me la fece saltar via di mano. Un altro calcio mi colse in piena faccia, mentre ero in ginocchio. Mi ruppe il naso, cazzo, era la terza volta in due anni. Per un attimo non vidi più niente, solo nero e lampi rossastri, poi riuscii a mettere a fuoco la sagoma massiccia che incombeva su di me, puntandomi una gigantesca Desert Eagle alla testa.

   Nivaldo Dias.

   Lui non era un fesso, era riuscito a sorprendermi. Portava ancora la camicia di lino della sera prima, aperta sul petto. Sotto, una massa spaventosa di muscoli tesi, duri come la pietra. Mi rivolse una specie di ghigno, mentre premeva il grilletto.

   - Foda-se seu cuzão de merda! – disse. Non sono un madrelingua portoghese, ma il senso era abbastanza chiaro. E lui si era avvicinato troppo. Rotolai sul fianco destro, sgambettandolo, mentre il proiettile calibro .45 Magnum si piantava nel pavimento dove un attimo prima c’era stata la mia faccia. Nivaldo Dias barcollò, ma non cadde. Ora però ero di nuovo in ginocchio. Gli afferrai il polso e picchiai la sua mano armata contro lo stipite della porta. La Desert Eagle cadde a terra. Lui attaccò al viso con il palmo della mano libera. Teisho Uchi. Cercava di infilarmi il setto nasale nel cervello e, se non me lo avesse appena rotto, forse ce l’avrebbe fatta. La botta espose l’osso, mandandomi uno schizzo di sangue negli occhi. Incassai con un grugnito, mi sollevai e ricambiai con un calcio al ginocchio del piede di appoggio, un po’ alla cieca. Quando hai di fronte un tipo molto più grosso e forte di te, sempre puntare al ginocchio, diceva il mio istruttore al Commando Hubert. Cadono a terra e di solito non si rialzano. Dias però conosceva il trucco, spostò il peso sull’altra gamba e arretrò, beccandosi il calcio di striscio. Meglio un brutto livido che una rotula fratturata, per lui. A questo punto eravamo finiti nell’officina, entrambi disarmati, entrambi esperti e decisi a uccidere. Dias mi rivolse qualche altro insulto che non sto qui a riportare, fece un paio di finte poi puntò agli occhi, indice e medio della mano enorme protesi in avanti. Parai con l’avambraccio sinistro, lui doppiò con un calcio dritto, maegeri. Quello, non riuscii a evitarlo. Rallentato dal giubbotto di kevlar, incassai all’anca e finii all’indietro, contro il banco da lavoro. Un’altra fitta all’altezza delle reni, quando urtai il piano di legno duro. Vidi le stelle. Merde!

   Rimasi stordito per un attimo, poi mi guardai intorno, chiedendomi dove fosse finito il mio avversario. Ebbi in risposta il ruggito di un motore a due tempi, dietro di me. Il capitano Dias aveva appena avviato una motosega McCulloch nera, lama da sessanta centimetri, dodicimila giri al minuto. Forse gli scagnozzi di Ribeiro la usavano per disboscare i dintorni della casa, o forse ci facevano qualcosa di peggio.

   In ogni caso, lui aveva tutte le intenzioni di servirsene per ridurmi in tanti pezzetti.

   Mi tirai su appena in tempo per evitare che la catena urlante mi affondasse in una spalla. Dias sorrise e sollevò la motosega, preparandosi a fare il giro del tavolo da lavoro. Era fra me e la porta, accidenti, non potevo neppure filarmela sul pianerottolo e cercare di recuperare le armi.

   Dovevo inventarmi qualcosa.

   Respinsi un altro attacco, gettandogli addosso una lattina di vernice. Dias la fece a pezzi con la lama, poi riprese ad avanzare, scuro in viso, con la bella camicia schizzata di macchie blu cobalto. La cosa sembrava averlo fatto incavolare di brutto. Io cercavo alla rinfusa sugli scaffali, rinculando, fino a che le mie mani si richiusero sui manici di due tozzi, pesanti, polverosi trapani Black&Decker a batteria. Non erano il massimo, ma avevano punte in acciaio da trenta centimetri. Meglio di niente.

   Dias si accorse dei miei nuovi acquisti e si fermò per un momento, valutando la situazione. Poi dovette decidere che la McCulloch gli garantiva comunque un vantaggio, perché ripartì all’attacco con un grugnito.

   - Filho da puta!

   Ora, non so a voi, ma a me se nominano la mamma a sproposito, girano davvero a elica. Schivai l’attacco con la motosega, facendo un altro passo indietro, e intanto avviai i trapani. Fecero un bel suono penetrante, come grosse zanzare incazzate. Dias sciabolò il suo arnese di lato cercando la mia gola, non la trovò e la catena si infilò nel muro, in una nuvola di polvere biancastra. A quel punto scivolai in avanti, sotto la traiettoria della lama, e gli affondai la punta del trapano di destra nel ginocchio, lo stesso che avevo colpito poco prima. Dias urlò, perdendo l’appoggio. Stavolta la lesione era profonda. Finì con la spalla contro la parete, per non cadere. Provò ancora a colpirmi, reggendosi sulla gamba sana, ma ero troppo vicino per la motosega. La punta del trapano di sinistra, un attimo dopo, gliela infilai in una spalla, dal basso verso l’alto, trapassando la clavicola. Dias lasciò cadere la McCulloch, accecato dal dolore. Saltai su, gli sferrai una gran testata alla radice del naso e lui crollò a terra, privo di sensi.

   Adeus,Capitão!

   Estrassi le punte dei trapani dalla rotula e dalla spalla, e trattenni l’impulso di piantargliene una in un occhio. Non si uccidono i poliziotti, se si può evitarlo. Era stata Jael, a insegnarmelo. Non è buona politica, aveva detto.

   Al diavolo il capitano Nivaldo Dias, dunque. Lasciai l’officina e ripresi a salire, dopo aver recuperato la mia Smith&Wesson. Già che c’ero, presi anche la Desert Eagle e le chiavi della CL, che Dias teneva appese alla cintura. Poteva tornarci comoda, la Mercedes.

 

   Perlustrai anche il secondo e il terzo piano, senza trovare nessuno. Mentre affrontavo Dias, la battaglia ai piani superiori era continuata. Ora invece nella casa regnava il silenzio. Feci altre due rampe di scale, e a un certo punto mi fermai, spalle alla parete del quarto pianerottolo. Qualcuno scendeva lungo la gradinata sopra di me, rapido e quasi senza fare rumore.

   Dopo un attimo di tensione, mi accorsi che si trattava di Sam.

   - Hai controllato di sopra? - chiesi a bassa voce. Lui annuì, indicando la porta chiusa della camera di fronte a noi.

   - É lì - disse, semplicemente. Poi partì con un calcio in avanti, terribile. Fece saltare i cardini della porta, che cadde all’interno, sul pavimento.

   Un attimo dopo, tutti e due eravamo dentro.

   La stanza era in realtà una specie di monolocale, ampio e piuttosto bene arredato. Notai un grosso schermo al plasma, un impianto stereo Bang&Olufsen, potente e costoso, scaffali pieni di cd e film porno in blu-ray, in gran parte giapponesi e americani. Gato Louco era proprio un intenditore. Contro la parete di fondo, un enorme letto a baldacchino. Un pezzo d’epoca in legno intarsiato, assurdo in quel contesto. Sulle lenzuola inzuppate di sangue giaceva il cadavere di Candido Ribeiro, seminudo, con la gola squarciata, un calice rotto ancora infilato nella giugulare. A terra, lì vicino, i corpi scomposti di altri due gorilla, crivellati di proiettili.

   - Sei stato tu? - chiesi a Sam, e mi resi subito conto di quanto fosse stupida quella domanda.

   Lui indicò la porta del bagno, che era socchiusa. Jael si trovava lì dentro, seduta in una gigantesca Jacuzzi, nuda e coperta di sangue. Aveva aperto i rubinetti e si lasciava scorrere l’acqua tiepida addosso, tenendo il braccio destro oltre il bordo della vasca. Così la Glock 9mm che stringeva in pugno non si sarebbe bagnata.

   L’avevano violentata a turno, mi avrebbe raccontato poi. Dias e Ribeiro, e poi di nuovo Dias, davanti agli occhi dei gorilla. Erano diventati soci, quei due, soci alla pari. Ormai dividevano proprio tutto.

   Aveva cercato di parlare con loro, aveva detto che era lì per trattare, a nome dei loro capi. Ribeiro aveva riso di lei e Dias l’aveva colpita duramente. I capi avevano bisogno di un segnale, secondo Gato Louco. Un segnale forte.

   - E poi - aveva concluso - da queste parti abbiamo un solo modo di trattare con le putas!

   Dopo un po’, Nivaldo Dias era uscito a fumare una sigaretta. Ribeiro stava ancora addosso a Jael, voleva prenderla un’altra volta, solo che non ci riusciva. Due di seguito non erano cosa per lui. I gorilla sorridevano, guar-dandosi e alzando le spalle. Allora Gato Louco li aveva cacciati fuori a calci, urlando loro epiteti irriferibili. Jael, stesa sul letto, con i polsi legati alla testiera, sporca e piena di lividi, a quel punto lo aveva chiamato. E nel farlo, aveva usato un tono insospettabilmente dolce.

   - Vieni, ti aiuto io - aveva detto.

   Ribeiro si era voltato verso di lei, stupito, senza rispondere.

   - Mi piace di più con te, sai? Nivaldo è troppo irruento.

   - Ah, sì? – Gato Louco aveva sorriso, ma in un modo diverso da prima.

   - Sì, voglio ancora... Hai capito, no?

   Lui era tornato verso il letto. Jael lo aveva fissato con i suoi bei fanali verdi, uno dei quali un po’ chiuso da un pugno.

   - Devi slegarmi le mani, però. Mi serviranno, le mani - gli aveva sus-surrato. E lui lo aveva fatto. Che pericolo poteva mai rappresentare, in fondo, quello scricciolo di donna?

   - Ora, se fossi un vero gentiluomo... - Ribeiro aveva alzato un sopracciglio - Se fossi un vero gentiluomo mi offriresti da bere. Hai dello champagne? Del Krug?

   Non ce l’aveva, ma aveva del vino rosso, un Cabernet-Sauvignon Serra Gaucha, prodotto in Brasile. Bevibile. Ribeiro ne aveva tirato fuori una bottiglia dal mobile-bar. E aveva commesso l’imperdonabile leggerezza di versarlo in un calice di cristallo.

   In ginocchio sul letto, Jael ne aveva bevuto un sorso, accarezzando il padrone di casa con l’altra mano. Poi aveva spaccato il calice contro il montante del baldacchino e lo aveva usato per tagliargli la gola. Gato Louco non era riuscito neppure a gridare. Aveva gorgogliato un po’, questo sì. Lei lo aveva lasciato a dissanguarsi sul materasso, si era alzata e aveva preso la sua Glock, posata su una poltrona. L’aveva armata e puntata verso la porta un attimo prima che i due gorilla, allarmati dal nostro attacco, si precipitassero dentro ad avvertire il loro capo.

   Un sincronismo perfetto.

 

   Infilai le pistole nella cintura, tesi a Sam le chiavi della Mercedes e la presi tra le braccia, sollevandola delicatamente dalla vasca. Non tremava, non diceva niente, non piangeva nemmeno. Non ancora. La avvolsi in una coperta abbastanza pulita, che trovai in un angolo della camera, e cominciai a scendere le scale con lei in braccio, preceduto da Sam.

   Arrivati al primo piano, però, Jael mi posò una mano sulla spalla.

   - Aspetta - disse.

   La lasciai andare, e lei si diresse con passo fermo verso l’officina. Aveva sentito un lamento, all’interno. Nivaldo Dias stava riprendendo i sensi e gemeva per il dolore, incapace di rialzarsi. Sam e io ci fermammo sul piane-rottolo, in attesa. La vedemmo sollevare da terra la motosega McCulloch, rimetterla in funzione e usarla sul capitano, cominciando dal piede sinistro.

   Di solito non ammazziamo i poliziotti, ve l’ho già detto, Jael è la prima a pregarci di non farlo. Questa sarebbe rimasta un’eccezione alla regola.

   Aveva ucciso Gato Louco in modo abbastanza pulito, considerata la situazione. Era morto in fretta. Con Dias, invece, si prese un bel po’ di tempo.

   Stavolta era un fatto personale.

 

   Uscimmo dalla favela a bordo della Mercedes, al tramonto. Guidava Sam. Nessun altro venne a disturbarci, i grandi capi del TCP e del Comando Vermelho avevano passato la voce. Trascorremmo la notte in un altro albergo, sulla costa, con nuovi documenti. Sam aveva cambiato le targhe alla CL. L’indomani avrei pensato io a darle fuoco, con un certo dispiacere: era davvero una gran bella macchina.

   Avevamo tre camere diverse, quella volta, e non mi stupii quando, a mezzanotte passata, Jael bussò alla mia porta. Controllò la medicazione che avevo al naso e le tante fasciature che mi aveva praticato in varie parti del corpo, poi venne ad accucciarsi di fianco a me, sul letto. Non voleva fare l’amore, e neppure parlare. Volle solo che la abbracciassi, che la stringessi forte, fino a che, finalmente, si lasciò andare alle lacrime.

   Ora non era più la donna dura, la puttana esperta, l’assassina temuta da tutti. Era di nuovo una bambina sperduta e disperata, senza passato, senza futuro. La bambina che era stata tanti anni prima, in un campo profughi del Laos.

   Ma anche questa, sapete, è un’altra storia.

   Quanto a me, la tenni stretta per tutta la notte, senza dire niente. All’alba smise di singhiozzare. Usai il mio fazzoletto per asciugarle gli occhi. Lei mi guardò, con quelle iridi verdi come smeraldi, verdi come il mare davanti a cui ero nato. Poi mi diede un bacio sulle labbra, uno leggero.

   - Non ti ho fatto dormire. - disse - Riposati.

   E se ne tornò nella sua camera.

   E questo è tutto.

 

   Tutto? No, non proprio. In effetti c’è un’altra cosa. Se sono qui, ora, con voi, è proprio per questo, no?

   Altrimenti che cazzo ci farebbe uno come me, in un ufficio dell’Interpol?

   Lo so, lo so, ora mi direte quello che dicono tutti gli altri. Che se sei un fottuto agente speciale dell’Interpol, è normale che tu stia in un fottuto ufficio dell’Interpol. Giusto?

   E il sottoscritto François-Luc Costa, Frank per i suoi cazzo di amici, non è nient’altro che questo: un fottuto agente speciale dell’Interpol, incaricato di infiltrarsi nella banda della criminale internazionale Jasmine Ellis, nota come Jael, e riferire a un comitato ristretto di suoi superiori.

   A quale scopo, ovviamente, è piuttosto chiaro.

   Per fotterla. In modo definitivo.

   Ma non subito, oh, no. È troppo utile, ora, in libertà. È troppo preziosa. Attraverso di lei, attraverso di me, le autorità potranno raccogliere informazioni di prima mano sui gruppi criminali con cui entra in contatto, in tutto il mondo.

   Materiale di valore inestimabile, che verrà usato in nome della Legge e dell’Ordine, al momento giusto.

   Fino ad allora, Frank Costa dovrà continuare a fare il suo sporco lavoro. Stare vicino a Jael, aiutarla nei suoi affari, scoparla, perché no? Perfino uccidere per lei, se necessario.

   E poi, un giorno, la pugnalerà alle spalle. Proprio così. Per poter riprendere a vivere la sua vita, ridiventare uno come tanti.

   Un uomo tranquillo. Un cazzo di passacarte, in attesa della pensione.

   È questa, l’altra cosa. E ora ce l’avete, merde, siete contenti?

 

   È il mio primo rapporto, figli di puttana.

   Ci si vede per il prossimo.

 

 

Copyright©2011, Pasquale Ruju